“Ho scritto t’amo sulla sabbia, ma il vento l’ha portato via”. Ho un vago ricordo di una vecchia canzone che conteneva, più o meno, queste parole e davvero non so dire chi la cantasse. Ma mi è tornata in mente quando, per l’ennesima volta, ho sentito parlare di piena occupazione nelle fabbriche italiane di Fca. I sindacati riuniti l’altro giorno al Lingotto per una sessione internazionale con l’azienda l’hanno evocata, richiesta, prevista e si sono spinti fino a dire che sarebbe stata la logica conseguenza dell’arrivo nelle fabbriche italiane di nuovi nove modelli sugli undici previsti dal nuovo piano industriale rivelato il mese scorso dal ceo Sergio Marchionne. Quest’ultimo aveva annunciato quattro anni fa la fine della cassa integrazione per il 2018, ma nel gennaio scorso aveva ammesso che l’obiettivo non poteva essere raggiunto. E nella presentazione di giugno dei piani Fca dei prossimi quattro anni non ne aveva fatto cenno, sicuramente conscio di quanto una dichiarazione del genere non fosse onestamente possibile. 



Perché, ora, fare previsioni in questo campo è solo è difficile, ma, forse, addirittura impossibile? È tutta una questione di dazi. Non si sa ancora se il presidente Donald Trump deciderà di imporli sulle auto importate negli Usa dall’Europa e non è ancora dato sapere in che modo l’Ue deciderà di reagire a una manovra del genere. Ora i dazi sulle auto importate negli Stati Uniti sono del 2,5%, mentre l’export americano di auto in Europa paga il 10%. Se le nuove percentuali di entrambe dovessero arrivare al 25%, come si ipotizza, e se davvero fossero imposte da un giorno all’altro, sarebbe una rivoluzione sanguinosa. Specie per le fabbriche italiane e i bilanci di tutti i costruttori europei.



Alfa Romeo, Maserati, ma anche tutte le altre auto premium tedesche costruite in Europa avrebbero prezzi troppo alti negli Usa e sarebbero fuori mercato rispetto ai concorrenti non europei. Ma lo sarebbero anche auto più piccole come la Jeep Renegade realizzata a Melfi. Riuscire a rimediare a una situazione del genere è possibile perché oramai tutti i costruttori hanno impianti un po’ dappertutto, ma sarebbe complesso e porterebbe via molto tempo.

L’unica soluzione possibile per continuare a vendere negli Usa sarebbe realizzare o modificare impianti, strutture produttive, linee di montaggio per realizzare le auto per il mercato americano direttamente negli Usa o in Paesi dove ci sono dazi meno esosi per l’esportazione verso gli Stati Uniti. E, viceversa, fare in Europa o altrove le auto finora realizzate negli Usa per il mercato europeo.



Per intenderci: se usiamo la gamma Fca come esempio, la Jeep Renegade dovrebbe essere fatta in parte a Melfi e in parte a Detroit, a seconda delle quote di vendita, oppure bisognerebbe decidere di spostare parte della produzione italiana nell’impianto brasiliano per dedicarla alle vendite in Usa. Stesso discorso per le Alfa Romeo e le Maserati: dovrebbero trovare un po’ di spazio nelle fabbriche di Chrysler per essere realizzate anche negli Usa. Oppure potrebbe essere più conveniente farle in Serbia (un orrore per i fan dei marchi) che è, per ora, ancora fuori dalla Comunità europea. Anche nelle fabbriche italiane, poi, bisognerebbe rivoluzionare un po’ tutto per riuscire a assemblare le Gran Cherokee, le Compass e le altre Jeep per il mercato europeo che magari bisognerebbe importare, in parte, dal Brasile.

Insomma i dazi, se mai arriveranno, finiranno per modificare tutto e nessuno può dire ancora in che modo si sposteranno le produzioni, in quanto tempo e in che percentuale. In questa situazione parlare di piena occupazione in Italia è come scrivere sulla sabbia.