Il dono di Dio agli azionisti del settore automotive, com’è stato definito da un analista, non c’è più. Questo non è soltanto la logica conseguenza di quello che è successo ieri nei consigli d’amministrazione di Fca, Ferrari e Cnh. Ne è, soprattutto, l’unico presupposto. Sergio Marchionne non può più stare a capo delle aziende che ha guidato, è il caso di Fiat, per 14 anni. Non stiamo dicendo che non vuole, o che non glielo fanno fare, ma che non è più in grado di farlo. “Sono sopraggiunte complicazioni inattese durante la convalescenza post-operatoria del Dr. Marchionne, aggravatesi ulteriormente nelle ultime ore”, si legge in una nota di Fca che aggiunge: “Per questi motivi il Dr. Marchionne non potrà riprendere la sua attività lavorativa”.



Così si spiega l’inspiegabile e mai prevista sostituzione ai vertici di Ferrari dove era amministratore delegato e presidente. E così si spiega l’uscita immediata dal Lingotto e da Cnh, prevista solo tra circa un anno. Tutti i programmi elaborati in questi anni sono saltati per “forza maggiore”. E si è dovuti correre ai ripari in tempi stretti, strettissimi.



Non sappiamo se ci siano in vista cambiamenti così importanti da prevedere un vertice Fca in piena efficienza, come qualcuno ha ipotizzato. Ma ci sembra l’ipotesi meno probabile. Se fosse così, la sostituzione di Marchionne avrebbe riguardato solo Fiat-Chrysler e non anche Ferrari e Cnh. È accaduto qualcosa di imponderabile che ha messo i cda del Lingotto di fronte a una scelta che non avrebbero voluto prendere. Almeno non in tempi così stretti. “Si tratta di una situazione impensabile fino a poche ore fa, che lascia a tutti quanti un senso di ingiustizia”, ha detto John Elkann, presidente di Fca.



Anche l’arrivo di Manley non si può non vedere sotto questa luce. L’inglese, responsabile di Jeep fino alla scorsa settimana, rappresenta il marchio di punta di Fca, quello che cresce, margina e vende di più. Sceglierlo in un momento di emergenza è la decisione più semplice e più logica. Una scelta intermedia, di passaggio, che cerca di dare continuità a un’azienda e a un business già messi a dura prova dagli investimenti della concorrenza, dai possibili dazi e dalle regolamentazioni sulle emissioni.

Ho scritto “cerca” perché l’uscita repentina di Marchionne lascia un vuoto che non può essere colmato. Non c’è un uomo dentro e fuori Fca, nel settore automotive e, forse, anche in altri comparti che sia capace di fare quello che ha fatto Marchionne, partendo da dove è partito lui 14 anni fa, quando Fiat era sull’orlo del fallimento con 15 miliardi di debiti e due di perdite ogni anno. Marchionne ha rotto tutti gli schemi fin dal primo giorno a Torino, ha rivoltato come un calzino un’azienda che era governata da una vecchia “dirigenza sabauda” affrontandola senza neanche una giacca o una cravatta. Ha riempito l’azienda di giovani promesse, le ha responsabilizzate, sfruttate fino all’osso e ne ha licenziate molte.

Illustre sconosciuto, ha infilzato come un tordo uno degli uomini allora più potenti del settore, Richard Wagoner, riuscendo a sfilare a General Motors 2 miliardi di euro per non comprare Fiat. Poi ha usato i soldi degli americani per la nuova 500, che rimane ancora oggi il cavallo di battaglia del marchio che ha contribuito non poco a mettere al tappeto Opel, il marchio europeo di Gm, venduto, poi, a Psa. Bazzecole rispetto all’affare Chrysler, portata via per un tozzo di pane, rimessa in linea di galleggiamento in tempi brevissimi e valorizzata puntando soprattutto sui marchi Jeep e Ram, quest’ultimo affidato anch’esso alle cure di Manley. L’operazione Chrysler è stata un capolavoro per niente facile da realizzare, visto che pochi anni prima i tedeschi di Mercedes avevano tentato di farla, ma avevano dovuto gettare la spugna dopo aver perso miliardi di euro.

L’anima finanziaria di Marchionne è emersa soprattutto nelle inedite, per il comparto, operazioni di spin off (da Ferrari a Cnh fino alla prossima Magneti Marelli) che ha valorizzato i marchi dando così grandi soddisfazioni agli azionisti e ha segnato una strada che verrà presto percorsa da altre aziende del settore automotive. Mentre la sua anima industriale si è concretizzata quando ha deciso di rilanciare sia Alfa Romeo che Maserati per aumentare i margini. Marchionne è riuscito sempre a fare le “nozze coi fichi secchi”, ovvero a fare business e affari avendo a disposizione pochi quattrini per fare investimenti, lavorando e facendo lavorare moltissimo chi era accanto a lui.

Solo due cose non è riuscito a fare: sfondare in Cina e siglare una grande alleanza con un competitor importante. In Cina non c’è mai stata partita perché quando era il momento buono Fca non aveva né i soldi, né il prodotto giusto per avere successo. Mentre un’alleanza era quasi impossibile perché le capacità di trattativa di Marchionne sono talmente note e temute che nessun manager della concorrenza ha mai voluto averlo di fronte per affrontare l’argomento seriamente.

Ora che il posto di Marchionne viene preso da un “car boy”, un uomo, Manley, che si è sempre e solo occupato di prodotto e non ha alcuna esperienza di finanza, il futuro rischia di essere molto più complicato.

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