“Ci vorrebbe un Marchionne” era diventata un modo di dire, una frase fatta, quando si voleva evocare la necessità di un “demiurgo”, un semidio, un essere strapotente per raddrizzare una situazione disperata: “Un Marchionne per Alitalia”, “Un Marchionne per Telecom”, “Un Marchionne per l’Ilva” e via discorrendo. L’ha opportunamente ricordato il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia nell’intervista che ha dedicato sul Corriere alla vicenda dell’ex capo di Fca. Verissimo. Sergio Marchionne era diventato sinonimo di miracolo. Perché alla Fiat aveva fatto un miracolo, anzi più d’uno. E nel giorno in cui il suo successore Mike Manley guiderà per la prima volta la riunione plenaria del top-management del gruppo, è giusto ricordarlo. Soprattutto per non commettere l’errore di misurare il “dopo-Marchionne” e i suoi protagonisti in “percentuali di Marchionnità”. Nossignore, l’uomo dal pullover era e resterà nella storia un unicum, uno fuori dagli schemi, come fuori dagli schemi è stata la missione che la storia non solo industriale del nostro Paese gli aveva affidato.
Insediato al Lingotto dal 1° giugno del 2004, è riuscito a estrarre dalle secche la Fiat rifilando a caro prezzo alla General Motors il “pacco” del maxi-indennizzo astutamente trattato da Paolo Fresco nel caso in cui gli americani non avessero voluto onorare l’impegno a comprare la Fiat Auto. Già, perché – tanto per ricordarcelo – quando Marchionne è arrivato in Fiat l’azionariato era deciso da tempo a disfarsi dell’industria dell’auto, mollandola agli americani, per quanto poco ci credeva. E Paolo Fresco, chiamato a Torino dall’Avvocato Agnelli con un’aureola di capacità manageriale che gli veniva dall’essere stato per anni con successo il numero due di Jach Welch alla General Electric, come tutto risanamento dell’auto non aveva saputo far altro, appunto, che venderla agli americani dell’altra General, la Motors. Con questa clausoletta avvelenata, che gli yankee avevano firmato alla leggera mai pensando di aver appoggiato in quel modo la testa sul ceppo: o ve la comprate o ce la pagate.
Quindi Fresco era stato la mente, Marchionne è stato l’abile braccio. Portati a casa i soldi dalla General Motors, e poste le basi finanziarie per rilanciare la Fiat Auto – compiuto cioè il primo salvataggio – Marchionne si è accinto al secondo. Un secondo salvataggio, tutto pensato e attuato dal manager di origine abruzzese, educazione canadese, passaporto svizzero: l’acquisizione a zero dollari (non proprio, ma quasi) di quel colosso straordinario ma malaticcio che era il gruppo Chrysler, con dentro quel gioiellino chiamato Jeep: convincendo Obama e i sindacati americani dell’auto, Marchionne è riuscito nel miracolo di un rilancio che – avrebbe detto Michelangelo – “era già nel marmo”, cioè era nelle premesse macroeconomiche della Chrysler: ma resta il fatto che è stato bravo lui a concretizzarlo. Tra l’altro, con Obama ha saputo intessere una relazione personale molto buona, che gli è stata utilissima per il buon esito dell’accordo, e che non gli ha impedito – prodezze del personaggio – di svilupparne una eccellente anche con Trump.
Da allora in poi, il tocco magico si è esaurito, nel senso che non è più stato così necessario, la gestione Fiat è diventata più “normale”, Ferrari compresa, visto che il manager è riuscito nell’altro miracolo, licenziare Luca di Montezemolo nonostante le iperprotezioni di cui godeva presso le componenti meno importanti della famiglia Agnelli, ma non è che dal secondo giorno si sia messa a vincere gran premi…
Però, diciamolo: due salvataggi, un mille per cento di valore borsistico in più, l’occupazione accresciuta e non tagliata, qualche caso addirittura sociale a dimostrare che sotto la scorza aggressiva Marchione teneva alla gente e all’Italia (per esempio, non aver tagliato gli stipendi improduttivo a quelli di Termini Imerese)… bastano e abbondano a consegnare Marchionne all’Empireo della storia del management.
Certo, anche Marchionne ha avuto i suoi limiti, di cui lui stesso soffriva e che spesso ha riconosciuto perché non gli difettava certo l’onestà intellettuale, al di là delle furbizie negoziali. Secondo molti analisti non ha investito abbastanza sui nuovi modelli; si è accorto solo pochi mesi fa delle prospettive straordinarie dell’auto elettrica (e questo l’ha ammesso); non ha sfondato in Cina, nonostante molti tentativi; non ha mantenuto le promesse di espansione produttiva in Italia (il famoso piano “Fabbrica Italia”, attuato solo in parte); e soprattutto non è riuscito a concludere l’ulteriore alleanza globale . magnifica preda, la General Motors, per il granitico “no” della lady di ferro Mary Barra – che ha perseguito. Forse perché ormai faceva troppa paura ai concorrenti, perché troppo bravo e troppo furbo. Ma certamente bisognerà rimpiangerlo: non è un bilancio in chiaro-scuro. Di scuro non c’è niente: senza Marchionne oggi la Fiat non esisterebbe più, questo conta.
Intendiamoci, però: non che la Fiat di Marchionne sia rimasta italiana. Non avrebbe avuto senso da un punto di vista strettamente finanziario volerla lasciare italiana al 100%. E dunque John Elkann, che italiano non è, né per nascita (New York), né per formazione, ha portato la sede legale a Londra e quella societaria ad Amsterdam, per contare di più tra i soci grazie al voto multiplo che l’Olanda ha istituito tra le prime nazioni nel mondo e soprattutto per pagare meno tasse.
Chi fa business globali resta in Italia come contribuente solo se ha davvero una vocazione patriottica. E qualcuno per fortuna c’è, ma non la Fiat. Quel che però garantiva più di quanto accadrà da oggi l’impegno di Fca in Italia era lui, Marchionne. Perché lui era uno che pur sempre sentiva le radici italiane, che pensava ancora in italiano, che in fondo era molto italiano anche nel suo modo di essere eccentrico. D’ora in poi Mike Manley farà esattamente quel che converrà a Fca, e difficilmente avrà da Elkann l’input di favorire l’Italia. L’idea di un Marchionne-nemico, accreditata dalla popolarità di alcuni sindacalisti che gli si sono mossi contro negli anni – primo fra tutti Maurizio Landini – potrebbe rivelarsi una pallida fake news rispetto alle mosse future del gruppo. Speriamo di no.
Per il resto, come scrisse Manzoni di Napoleone, rispetto all’uscita di scena del grande manager non c’è che chinar “la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar”.