Il dopo Sergio Marchionne comincia malissimo per Fca. Nei conti semestrali presentati ieri la stima di ricavi netti a fine anno scende a un livello tra i 115 e 118 miliardi di euro (era di 125 miliardi di euro a inizio anno) e quella dell’ebitda adjusted a 7,5-8 miliardi di euro (da 8,7 miliardi di euro). Un profit warning che ha fatto crollare il titolo del 15,5%. Non è colpa di Mike Manley, perché i conti sarebbero stati gli stessi, ma il nuovo ceo del Lingotto ci ha messo del suo dicendo che l’azienda è in grado di andare avanti da sola. Con una sola frase ha dimostrato di non essere a conoscenza di come davvero vanno (male) i marchi del gruppo che non erano sotto il suo controllo e di avere poche idee sulle trattative che da tempo sono in corso a 360 gradi per la cessione di Fca.



Intendiamoci, anche Marchionne aveva ripetuto più volte questa storiella dell’andare avanti da sola, ma era un gioco delle parti di una vecchia volpe della finanza che si muoveva con gli analisti di Wall Street come se fosse con gli amici al bar. Lo diceva quando i conti andavano bene e voleva gettare acqua sul fuoco della speculazione.



Manley ha, poi, parlato della Cina come della sfida più importante, di quella decisiva e ha aggiunto di sapere come vincerla. E anche qui ha dimostrato di essere rimasto per molti versi (solo) il capo di Jeep. È il marchio americano che sta giocando questa partita, certamente importante ma non decisiva, mentre il resto dei brand la Cina la vedono solo con il binocolo, peraltro dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto di vendere qualche automobile nel mercato più importante del mondo.
Alla fine, l’azzeramento del debito raggiunto a giugno, con una liquidità in cassa di 500 milioni di euro, largamente atteso, ha contato poco o nulla nel frenare il crollo della quotazione Fca. Anzi, mischiato con il previsto calo del fatturato e dell’ebitda adjusted ha dato la stessa impressione di una sposa che ha rinunciato a mangiare per giorni per poter entrare nel vestito bianco e per questo rischia di arrivare lunga distesa, svenuta, davanti all’altare. Dal punto di vista estetico l’azzeramento del debito è un gran risultato se Fca si vuole “sposare”, ma per raggiungere questo obiettivo cominciano a soffrire i dati su ricavi e utili perché mancano gli investimenti.



Non tutti sono in grado di fare le nozze coi fichi secchi. La strategia di puntare su Alfa Romeo e soprattutto su Maserati (-41% di immatricolazioni) per ottenere margini maggiori mostra una corda che c’è sempre stata, ma che gli analisti perdonavano a Marchionne in attesa di un suo colpo di teatro che ribaltasse la situazione. E che invece non perdonano neanche un po’ a Manley.

L’incontro con gli analisti di ieri ha dimostrato che il nuovo ceo di Fca è un ottimo uomo di produzione che si muove bene nei mercati, tra modelli e linee produttive, ma non può neanche per un secondo prendere il posto di Marchionne. Nemmeno sotto la tutela dell’azionista-presidente John Elkann che questa volta deve avere il coraggio di spendersi di persona, rappresentare l’azienda, guidarla, esserne l’immagine. Dopo 14 anni passati alla corte de “il migliore”, dopo aver imparato, e, a volte, si dice, aver dovuto ingoiare qualche rospo, ora è il suo momento. Ha l’età giusta, il nome giusto, l’esperienza internazionale giusta per tentare di confrontarsi con quello che non ha mai definito il suo maestro, ma di fatto lo è stato.

E deve farlo in fretta, perché la situazione diventa ingarbugliata e potenzialmente pericolosa. Un mese fa Asia Times, raccogliendo voci all’interno di Hyundai, sosteneva che il ceo del colosso coreano Chung Mong-koo stesse aspettando un “previsto declino” delle azioni di Fiat Chrysler Automobiles prima di lanciare un’offerta di acquisto. In molti si sono domandati perché il manager fosse così certo di questo declino e ora dopo la malattia e la scomparsa di Marchionne, i conti del secondo trimestre e il crollo in Borsa, qualcuno comincia a domandarsi se i vaticini coreani fossero frutto della bravura di un indovino locale o di informazioni riservate.

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