Se la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, come diceva Carl von Clausewitz, i dazi sono le armi dell’unica guerra incruenta ma lesiva che gli Stati Occidentali, fino a prova contraria, hanno deciso di conservare tra le risorse della politica all’indomani degli accordi di Yalta e, a maggior ragione, dopo il crollo del Muro. Ma se questo concetto era chiaro, nessuno – dall’Uruguay Round del World trading organization in poi – avrebbe mai immaginato di ricorrervi con la durezza e anche l’aggressività verbale di contorno che sta usando Donald Trump. 



Si è ripetuto ieri, il biondone che abita alla Casa Bianca, in un discorso elettorale in Virginia tenuto a poche ore dalla rivelazione che il suo braccio destro Cohen ha ammesso di aver ricevuto anni fa dall’attuale presidente l’ordine di tacitare, a suo di denaro, una pornostar decisa a denunciare la relazione avuta con il magnate. Ce n’è d’avanzo per un impeachment, per la solita solfa americana, del “ti perdoniamo tutto, ma non di averci mentito”. E dunque? Dunque Trump ha fatto lo gnorri e si è scatenato contro l’Unione europea, forse – diranno i suoi tanti critici – per cercarsi un diversivo, un nuovo “nemico esterno” con cui depistare le polemiche e allontanare dalla sua storia personale il peso delle critiche: modesto espediente, a guardarsi da lontano.



“Stiamo mettendo una tassa del 25% su ogni auto che arriva negli Stati Uniti dall’Unione europea”, ha detto ieri Trump, in coerenza piena – va detto – con la sua filosofia dell'”America First”. Richiamandosi al summit dello scorso mese con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, Trump ha infatti affermato di avergli detto che la disputa commerciale tra Ue e Usa “è tutta sulle auto”. Ha anche raccontato come ha condotto il dialogo con l’Europa al tavolo dei negoziati, e ha detto di aver riferito a Juncker della sua decisione. Ma la comunicazione ha spiazzato tutti gli analisti politico-economici internazionali che seguono il tema, perché all’indomani del vertice con Juncker, la vulgata diffusa dalla Casa Bianca era stata che i due leader avevano trovato un’intesa per congelare i nuovi dazi sulle auto europee durante le trattative per un accordo definitivo tra Usa e Ue.



Dunque una gelata aspetta l’industria dell’auto europea? Sì e no. Intanto perché la General Motors ha ancora molti investimenti diretti in Europa e non si capisce come potrebbero essere trattati dall’eventuale rincaro doganale. E poi perché non è chiaro, comunque, quando queste tariffe dovrebbero entrare in vigore. Non più tardi di martedì scorso, il segretario al Commercio Wilbour Ross ha riferito, in un’intervista al Wall Street Journal, che l’amministrazione Trump difficilmente avrebbe imposto delle tasse sulle automobili nell’immediato futuro perché le raccomandazioni e uno studio del Dipartimento del Commercio – opportuno se non indispensabile per legittimare l’iniziativa – non sono ancora pronti. E come mai non sono pronti? Perché gli stessi uffici sono impegnati nei negoziati con il Messico e il Canada, oltre che con quelli con l’Europa. Per non trascurare la Cina, che è l’altro nemico esterno dell’amministrazione Trump. 

Sempre secondo Ross, tra le ragioni del ritardo degli uffici nella predisposizione dei materiali sull’Europa ci sono appunti i negoziati in corso con Europa, Messico e Canada. Ma allora perché parlarne, se non in un empito propagandistico? È come sempre difficile decifrare Trump, capire quanto parli di impulso e quanto mediti sulle cose che dice. Di certo, la scelta di tempo per quest’intemerata anti-europea – che minaccia di colpire oltretutto anche il gruppo General Motors, che in Europa ha ancora molte produzioni – appare particolarmente infelice se si considera che ieri è entrata in vigore la prima tranche di sanzioni commerciali che gli Stati Uniti hanno imposto alla Russia per violato le regole sull’uso di armi chimiche.

L’impressione è che moltiplicando i fronti di attrito col resto del mondo Trump voglia mostrare i muscoli, alimentare la fiamma del nazionalismo che lo sostiene e in definitiva far paura a tutti. Ma sono ancora tempi da poter far paura al resto del mondo, per quanto forti siano gli Stati Uniti?