C’è qualcosa di struggente nella voglia di mordere la vita che tanti ragazzi testimoniano, dopo due mesi di solitudine e segregazione, affollando i luoghi di ritrovo, accalcandosi per sentirsi di nuovo forti, sicuri. C’è qualcosa di teneramente malinconico in questo correre a star stretti stretti, a ripetere i riti, a riappropriarsi degli spazi perduti.



C’è qualcosa di anomalo per dei giovani, qualcosa di vecchio. Sono i vecchi che chiedono il solito posto al tavolino del bar, alla panchina dei giardinetti, con i soliti amici. È bello, ma è un bisogno di sicurezze che i giovani non dovrebbero pretendere. Non c’è un diritto alla movida come a un’abitudine vitale. Non c’è un diritto all’aperitivo alla stessa ora e allo stesso posto, è come il bicchiere di vino di certe ballate gucciniane. Niente di male, ma è da vecchi.



Quel che non capiscono i commentatori burberi e moralisti che s’indignano per le scomposte disobbedienze dei nostri giovani, è questo tratto che fa stringere il cuore, e spinge ad abbracciare la fragilità. Non sono sconsiderati, questi ragazzi. Non sono egoisti, dimentichi delle sofferenze di tanti anziani. Non sono tutti volgarmente dediti alle gozzoviglie. Hanno paura, del dolore, della solitudine, della precarietà che si spalanca come un gorgo alla loro maturità. Hanno paura anche a diventare adulti, dato che gli adulti non danno bella mostra di sé, quanto a solidità e statura umana.



Le follie della movida che ci scandalizzano tanto sono segno della mancanza di Dio. Absit iniuria verbis. Questi nostri figli vogliono che tutto torni in fretta come prima. Tutto, subito. Ma si cresce quando si fanno i conti con la memoria, e la speranza. Il presente è intenso se si fa tesoro del passato, guardando con radici stabili il domani. Il presente lo bruci se non hai nulla da conservare, cioè da serbare in compagnia; nulla da sperare, se non il raggiungimento di qualche progetto a scadenza.

Gli abbiamo programmato la vita, si rubano i pochi spazi liberi. Ma non sanno per cosa valga la pena di spendersi, e anche di fare qualche sacrificio, di essere coraggiosi e fedeli. Vivono già a vent’anni di nostalgie o utopie. La realtà si perde nelle bollicine di uno spritz, che la offusca, e finge che sia rosarancio, brillante. Ricorderete la traduzione cinematografica, spettacolare e fedele, del romanzo più cattolico del 900, Il Signore degli Anelli. Quando Frodo, Sam, Pipino e Merry tornano alla Contea, siedono alla locanda davanti a un bel boccale di birra schiumosa, chissà quante volte sognato, tra mille peripezie e dolore e morte. Frastuono all’intorno, dei loro amici, vita e birra che scorrono. Loro quattro si guardano, si vedono e si sentono diversi. Non migliori, ma diversi: non può essere tutto come prima, qualcosa è cambiato. Loro sono cambiati.

È questo che vorremmo, dai fatti del vivere. Cambiare, convertirci, ovvero volgersi a qualcosa per cui valga la pena vivere e combattere. Un ideale, certo. Dio vale molto di più, perché promette la vita eterna.

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