La II sezione del Tribunale di Milano dovrebbe depositare entro il termine ultimo del 13 aprile le motivazioni della sorprendente sentenza di primo grado del processo Mps, che ad ottobre scorso ha condannato a 6 anni di prigione e a una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno Alessandro Profumo e Fabrizio Viola per i reati di aggiotaggio e di false comunicazioni sociali. Conclusioni alle quali il Tribunale è arrivato nonostante la notoriamente severa Procura della Repubblica di Milano avesse chiesto a più riprese per l’allora presidente e per l’amministratore delegato della banca senese prima l’archiviazione e poi l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” nel caso dell’aggiotaggio e “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” per la contestazione di false comunicazioni sociali durante il loro mandato.



Un colpo di scena inaspettato che ha fatto molto discutere giuristi ed esperti sul perché per Profumo (ora amministratore delegato di Leonardo) e per Viola, senza dubbio protagonisti del salvataggio della banca, si fosse usato lo stesso metro utilizzato per Mussari e Vigni, già condannati ad oltre 7 anni di reclusione. In altre parole, coloro che in quel drammatico ottobre 2012 hanno svelato il “mandate agreement” di Alexandria, cioè il manuale di istruzioni di quella specie di rompicapo finanziario (e del suo  gemello Santorini), sono stati messi sullo stesso piano di chi – Vigni e Mussari – l’aveva creato e accuratamente nascosto ai controllori prima e agli inquirenti poi determinando così per Mps perdite per centinaia di  milioni di euro.



Vale la pena ricostruire i fatti di allora. Alexandria e il gemello Santorini – il primo strutturato da Dresner Bank, il secondo da Deutsche Bank – nascono sull’onda della grande bolla finanziaria destinata a esplodere con la crisi dei mutui subprime. Nel 2005 l’Istituto senese investe in un derivato chiamato Alexandria, acquistandolo da Dresner Bank. Si tratta di un titolo complesso, che però appare inizialmente un buon investimento. Un’operazione analoga a quella che vede protagonista Santorini: costituto da Mps, nel 2002 detiene una partecipazione del 4,99% nel Sanpaolo di Torino. La banca senese decide di utilizzare Santorini per coprire le perdite legate ad altri investimenti, in particolare quelle di un equity swap imposto da Deutsche Bank, avente quale sottostante una partecipazione di Mps in Sanpaolo.



La crisi del 2008 sconvolge però l’intero settore, generando pesanti minusvalenze per entrambe le operazioni e inducendo Mps, Deutsche Bank e Nomura, subentrata a Dresdner, a ristrutturare i due veicoli. Nomura riacquista le notes emesse da Alexandria nel 2009, Deutsche Bank le azioni di Santorini nel 2008. In questo modo le due banche straniere si fanno carico delle minusvalenze di Mps: come contropartita vendono a Mps un enorme quantitativo di Btp, in totale circa 5 miliardi, ovviamente a prezzi di mercato. Per far fronte all’acquisto, Monte dei Paschi sottoscrive un finanziamento a lungo termine. Chi le presta i soldi? Guarda caso, Nomura e Deutsche Bank: i due istituti stipulano un contratto con cui Mps, in cambio della liquidità per coprire le perdite, cede Btp trentennali impegnandosi a ricomprarli negli anni successivi a un prezzo più alto.

La precedente gestione di Montepaschi riesce in questo modo a occultare 730 milioni di perdite, che avrebbero reso forse insostenibile la situazione di Siena, già messa a dura prova dalla crisi finanziaria che si era abbattuta sul settore bancario e dalla disastrosa acquisizione di Antonveneta. Per avere un ordine di grandezza, a fine 2011, la carenza di capitale accertata dall’Autorità bancaria europea (Eba) era pari a 3,3 miliardi di euro. Per effetto delle perdite occultate, alla fine del 2012 la perdita di Montepaschi superava largamente i 4 miliardi di euro.

La scoperta da parte di Viola e Profumo del “mandate agreement” è quindi un passaggio decisivo perché consente di dare una logica e una spiegazione unitaria a una serie di operazioni all’apparenza slegate tra loro. Le maggiori perdite emergono nel bilancio 2012.  Successivamente, tra il 2013 e il 2015, proprio Viola e Profumo provvedono a chiudere le operazioni Alexandria e Santorini in anticipo rispetto alle scadenze contrattuali, anche per le pressanti richieste provenienti soprattutto dalla Bce, allora guidata da Mario Draghi. Con la discesa degli spread resa possibile dal programma di Quantitative easing avviato dalla Banca centrale europea, le quotazioni dei titoli di Stato italiani recuperano terreno e il fardello delle minusvalenze si alleggerisce. Il timing dell’uscita si rivela azzeccato. Inoltre, la serrata negoziazione effettuata con le due banche d’affari coinvolte consente a Mps di ottenere un ristoro da parte delle medesime controparti rispettivamente pari a 440 milioni per Alexandria e a 220 per Santorini.

In altri Paesi, Profumo e Viola avrebbero ricevuto la massima onorificenza per i risultati conseguiti con il loro lavoro a Mps. In Italia, i due banchieri – nonostante per ben tre volte la Procura ne chieda l’archiviazione e l’assoluzione – vengono condannati per falso in bilancio proprio in relazione ai criteri di contabilizzazione (a saldi aperti o a saldi chiusi) delle operazioni Alexandria e Santorini. E qui merita qualche spiegazione. Prima di tutto, i criteri di contabilizzazione non modificano l’entità della perdita occultata dal vecchio management di Montepaschi: a saldi aperti o a saldi chiusi c’è sempre un buco di 730 milioni. Secondo, l’operazione era sempre stata contabilizzata a saldi aperti. Viola e Profumo decidono di proseguire con questo criterio, ma si pongono anche il problema della rappresentazione alternativa. Contabilizzare a saldi chiusi significa, di fatto, considerare i contratti con Nomura e Deutsche Bank alla stregua di derivati, come in un certo senso potevano essere considerati. Proprio perché il criterio alternativo appare plausibile i due banchieri decidono, dopo una complessa interlocuzione con le autorità di vigilanza, di inserire già nel bilancio 2012 una lunga nota integrativa che si sofferma sullo scenario alternativo, ovvero il criterio di contabilizzazione a saldi chiusi.

A orientare verso i saldi aperti, ha giocato probabilmente un’altra considerazione. In base ai principi contabili internazionali, il criterio dei saldi aperti consente di tenere gli effetti contabili dell’operazione all’interno dello stato patrimoniale della banca, mentre a saldi chiusi si scaricano sul conto economico. Per effetto dell’elevata volatilità degli spread di quegli anni, ciò avrebbe comportato una forte variabilità nei risultati del Montepaschi, in termini di maggiori utili o di maggiori perdite nel corso degli anni. La scelta dei saldi aperti non viene contestata né dalle autorità Consob e Banca d’Italia, né dagli azionisti nelle assemblee che ogni anno si celebravano a Siena.

Ci si domanderà: cos’è accaduto, allora, che ha fatto ritenere un atto doloso quello che poteva apparire come un dibattito di sofismo finanziario? A un certo punto interviene un fatto nuovo. Nel 2015, a seguito delle indagini della Procura della Repubblica di Milano, la Consob cambia opinione e chiede ai vertici di Montepaschi di modificare i criteri di contabilizzazione, passando ai saldi chiusi, pur senza contestare, anzi ribadendone la correttezza dei comportamenti. Viola e Profumo, ovviamente, ottemperano alla richiesta della Consob. Il mercato prende atto di una situazione ampiamente conosciuta e infatti il titolo di Mps non registra alcuna particolare variazione. E non si sposta nemmeno la convinzione della Procura milanese, che per ben tre volte chiede l’archiviazione per Viola e Profumo e quando alla fine, su richiesta del Gup, si va a processo chiederà l’assoluzione con formula piena dei due banchieri. Ma la posizione degli accusatori viene rovesciata dalla sorprendente decisione dei giudici di primo grado. Da qui l’attesa per motivazioni che dovranno ampiamente giustificare una sentenza che appare senza senso.

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