Michela Murgia, la scrittrice a cui la corte d’Appello di Sassari ha appena confermato la condanna ad una mega-multa per non aver rispettato il contratto con una società editrice su materiale già pubblicizzato persino al Salone del Libro di Torino, continua ad essere invitata come intellettuale e scrittrice di punta nelle trasmissioni televisive. Il suo ruolo sarebbe quello di pensare, di “interpretare semiologicamente” i linguaggi, come afferma lei stessa. Così alla trasmissione televisiva di Floris ha “interpretato semiologicamente” il linguaggio e la figura del generale Figliuolo, il commissario straordinario per il coordinamento delle misure per il contrasto dell’emergenza Covid nominato dal Governo.
“Io gli unici uomini che ho visto in divisa davanti alle telecamere, che non fossero le forze dell’ordine durante un arresto importante, sono i dittatori” ha affermato, aggiungendo: “A me personalmente spaventa avere un commissario che gira con la divisa, non ho mai subito il fascino della divisa”. Potremmo rovesciare il gioco e fare noi l’analisi semiologica (ma basta quella grammaticale) della Murgia. Ad esempio il verbo spaventare è transitivo e si può (si dovrebbe) usare un normalissimo “mi spaventa” anziché “a me spaventa” con quell’improbabile complemento di termine, e dire perciò che “ci” spaventa (“non a noi spaventa”) che una scrittrice considerata di punta, a cui si assegnano i campielli, usi in questo modo il linguaggio che dovrebbe semiologizzare, o cose così. Glissiamo anche sull’annotazione, non interessantissima a livello politico e sociale, su cosa la affascini o meno.
Il cuore della questione è un altro. Sta nel fatto “che affidare le vaccinazioni a un generale che veste la divisa è un forte atto simbolico”, afferma la Murgia, che si scaglia poi contro il linguaggio di guerra usato per accelerare la campagna di vaccinazioni. Ora, c’è il dettaglio che la prossimità tra la pandemia e lo stato di guerra è una metafora ben più antica del governo Draghi, già usata all’inizio di questa storia: in abiti civili, il precedente commissario era quel Domenico Arcuri forse troppo “pacifico” nell’affrontare il Covid. Ma la vera questione è un’altra. Agli orecchi di molti l’interpretazione semiologica di Murgia, più che offensiva o provocatoria (troppo onore permetterle che ci faccia questo effetto), suona d’una banalità sconcertante. Vorrei conoscerli tutti gli italiani terrorizzati da Figliuolo, chissà dove sono; a parte la Murgia, non ne ho incontrato ancora uno.
Infine, la commentatrice frequentemente ospitata nei salotti fortis-gruberiani è stupita delle polemiche seguenti le sue affermazioni, perché a suo dire “io ho sollevato una questione che mi pare persino ovvia e mi stupisco dello stupore”. Una “questione ovvia” è una cosa risaputa, talmente normale che dovrebbero pensarla tutti così, dunque. Perché non proviamo tutti lo stesso sentimento criptopacifista, diamine? Eccola, l’intellighenzia che si stupisce che noi non capiamo e che, se non proviamo lo stesso spavento di fronte a una divisa, siamo probabilmente destrorsi inside, pronti forse ad essere misurati dal “fascistometro” inventato dalla stessa Murgia. Va così. Una volta l’intellighenzia si chiamava Pier Paolo Pasolini e i linguaggi erano interpretati semiologicamente da gente del calibro di Umberto Eco, se non ricordo male. Oggi abbiamo le ovvie, acute e spaventate interpretazioni di Murgia. Ai posteri l’ardua sentenza.
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