La ormai secolare questione sul (reale o presunto) allontanamento della musica cosiddetta “colta” dal pubblico è quasi sempre imperniata sul problema del linguaggio o, nella più politicamente corretta versione contemporanea, dei linguaggi.
L’impostazione della Biennale di quest’anno non si discosta da questa via maestra che, ormai da più di trent’anni, si spaccia per rivoluzionaria e non è altro che semplice ripetizione del già visto e già detto. In una frase: è il conformismo degli anticonformisti chic.
Concentrare tutta l’attenzione sul linguaggio (o addirittura sull’elemento pre-linguistico – il “suono nascente” con le sue “oscure evocazioni” pseudo sciamaniche) è infatti un bellissimo modo per occultare quello che ormai appare come il vero problema dell’intero panorama musicale mondiale: oggi non c’è più capacità di ascolto perché si è perso il soggetto dell’ascoltare, si è perso l’uomo.
Pensare che l’ascolto del Don Giovanni o della Passione secondo Matteo sia esperienza alla portata di tutti è semplice utopia. Opere di tale portata e complessità richiedono evidentemente una capacità di comprensione che non è certamente inferiore a quella richiesta dalla “difficile” musica contemporanea.
L’apertura all’Altro da sé (rappresentato qui dalla musica) e la disponibilità a farsi accompagnare verso luoghi ignoti per strade sconosciute è esperienza che richiede un nocciolo duro (l’io umano) che oggi tutto, come insegnava Rilke nelle Elegie Duinesi, congiura a nascondere, a cancellare.
In che cosa mai è fatta consistere la “pienezza” dell’uomo oggi? Nel migliore dei casi in una personalità infranta e contraddittoria che risponde solo al criterio dell’emozione (a uno stimolo corrisponde una reazione, cessato lo stimolo cessa pure ciò che ne consegue). Molto comodo. È così che il marketing con i suoi guru ragiona, è così che l’uomo si svuota definitivamente del vero motore del suo agire, quel desiderio profondo ed inestinguibile che lo spinge verso la verità e la felicità. Ad ogni costo.
Chi ha oggi il coraggio di dire che l’ascolto (per me, per tutti) è qualcosa da reimparare? Chi sollecita i cuori e le menti affinché comprendano che il come (la forma, la struttura di un’opera d’arte) è il veicolo che apre alla comprensione del cosa (il contenuto esperienziale ed umano dell’Opera)?
A dimostrazione di quanto stiamo argomentando proponiamo un semplice esperimento, provate a domandarvi: “come è fatta la mia canzone preferita?”. Per la mia esperienza (di didatta e di musicista) la semplice comprensione del significato della questione risulta spesso altamente problematica. Cosa vuol dire come è fatta? E cosa c’entra questo con il “piacere” (simile a quello dei bambini che rivedono decine di volte lo stesso film perché la ripetizione del già saputo è altamente rassicurante) che provo ascoltandola?
Tale provocazione mira evidentemente a mostrare che, contrariamente a quanto potrebbe accadere per un quadro o per un dramma teatrale, la musica è affrontata in maniera talmente superficiale da rendere praticamente incomprensibile una domanda dalla quale, di fatto, dipende il proficuo incontro con un’opera d’arte musicale.
In realtà il problema dell’ascolto della musica d’oggi o di quella di trecento anni fa è sempre lo stesso: liberarsi da quell’orizzonte d’attesa sclerotizzato (ovvero da quel pregiudizio che ci porta ad accettare un brano solo se corrisponde esattamente a quello che ci attendiamo, cosa che nella stragrande maggioranza dei casi è la banale e rassicurante ripetizione del già sentito) e l’apertura verso una nuova capacità di leggere l’opera per quello che è e che dice e non per quello che noi vorremmo sentire.
Allora il problema della dissonanza o della consonanza (ovvero il problema del linguaggio) non sarà più elemento discriminante/problematico ma semplice variante attraverso la quale diversi artisti hanno deciso di comunicarci quanto avevano da dire.
Ma come fare tutto ciò? Attraverso il recupero di una disponibilità attenta al particolare e attraverso la capacità di stabilire analogie tra la forma (in ogni sua sfaccettatura) dell’opera affrontata ed esperienze extramusicali che siano strutturalmente affini a quella.
Allora ci apparirà chiaro il motivo per cui, ad esempio, le due Louanges (la prima all’Eternità e la seconda all’Immortalità di Gesù) contenute nel meraviglioso Quatuor pour la fin du temps di Messiaen (su cui torneremo) siano così simili eppur così diverse.
L’Eternità di Cristo (ovvero il Suo essere Persona della Trinità) è rappresentata musicalmente da una lunga melodia del violoncello accompagnata da una lentissima e regolare pulsazione del pianoforte che, nel rappresentare l’estatico eterno presente del divino, mostra anche il Suo essere assolutamente non richiudibile entro schemi solamente umani (il pezzo infatti non riporta all’inizio nessuna indicazione di misura [2/4,3/4 o simili] e ogni battuta ha una lunghezza diversa dalle altre).
O. Messiaen, “Quatuor pour la fin du temps” – Louange à l’Éternité de Jésus
L’Immortalità di Cristo (conseguente alla Sua incarnazione e risurrezione) è invece rappresentata da un brano che, pur presentando diversi tratti comuni con la Louange precedente, assume in sé quel tratto di conoscibilità di Dio che Gesù ha mostrato per l’eternità (“Chi vede me vede il Padre”).
La composizione infatti, una lunga ed estatica melopea del violino accompagnata da accordi ribattuti del pianoforte, presenta alcune significative differenze con l’analogo movimento per violoncello, differenze che illuminano il suo significato esistenziale e teologico.
Innanzitutto il brano ha una precisa indicazione di misura (è interamente scritto in 4/4) e una maggiore regolarità nel fraseggio, confermando con questo (sempre in chiave analogica) la familiarità di Dio con l’uomo (di Dio posso sapere quello che Cristo mi mostra).
La dolente umanità del Crocifisso resuscitato è poi individuabile nel singolare stilema dell’accompagnamento pianistico, costituito da un accordo brevissimo immediatamente ripetuto con un valore più lungo. In questo costante ed estatico “singulto” musicale possiamo ritrovare effigiato (analogicamente) Cristo che porta per sempre impresse le piaghe della sua Passione, mentre nella regolarità della pulsazione troviamo un’eco dell’eternità del Verbo.
A un ascolto attento poi la melodia del violino ci rivela ulteriori significati. Infatti la frequente e insistita sovrapposizione di gruppi non commensurabili tra loro (tre note del violino contro due del pianoforte) ci mostra l’irriducibilità di Gesù alla sua sola umanità e, nel contempo, ci illumina sul faticoso e inarrestabile moto di ascesa che, con Lui ed in Lui, noi tutti facciamo in questa vita, moto che completeremo nella visione beatifica della Eterna Luce (rappresentata magnificamente dalla lunghissima nota finale posta nel registro sovracuto dei due strumenti impiegati dall’Autore).
O. Messiaen,”Quatuor pour la fin du temps” – Louange à l’Immortalité de Jésus
In definitiva, dunque, tutto il problema che ha fatto versare fiumi d’inchiostro si riduce alla necessità di una nuova educazione integrale dell’umano, un’educazione che non intenda l’uomo ideologicamente, ma che lo accolga nella sua totalità senza cancellare neppure un tratto del suo carattere peculiare. Ma per questo serve ciò che questo mondo rifiuta più di ogni altra cosa: l’umile e consapevole sequela verso chi è capace di aiutarci nel cammino. In una parola, serve un maestro che ci accompagni e ci insegni ad essere uomini.
[1] Il Quartetto per la fine dei Tempi venne composto nel gennaio del 1941 da Olivier Messiaen, mentre si trovava nel campo di concentramento nazista di Gorlitz, dove venne eseguito con strumenti di fortuna, davanti a tutti i prigionieri. Olivier Messiaen (1908-1992) compositore tra i più innovativi e importanti del secolo scorso, nonchè organista e ornitologo, si dedicò all’insegnamento forgiando e influenzando varie generazioni di compositori, tra cui, ad esempio, Pierre Boulez.
[2] Composizione melodica di ritmo lento spesso ispirata a motivi liturgici.