Da che mondo è mondo, il batterista è sempre il personaggio più pazzo di una rock band. Non stiamo parlando degli esordi, del beat, quando Ringo Starr era la mezza calzetta dei Beatles, ma di “subito dopo”, quando a pestare i tamburi ci sono andati le teste calde, quelli che avevano bisogno di sfogare energie in sovrappiù.
In questo senso Mitch Mitchell è stato un esempio, al pari di Ginger Baker nei Cream o di Keith Moon negli Who. Dategli due bacchette, una cassa e un charleston e vedrete che casino sono in grado di farvi.
Presa per buona questa incredibile triade di musicisti, diciamo pure che Mitch era la pulizia, un ottimo metronomo inglese, Ginger era l’anarchia creativa, Keith era l’irruenza ritmica sfrontata. Personalmente tra i tre colossi del drumming degli anni Sessanta ho preferito di gran lunga l’incredibile Moon, funambolico in tutto, dagli stacchi e contro stacchi di Young man blues al vezzo di sfasciare il suo strumento già nel 1964, quando ancora Hendrix non aveva messo in piedi la sua Experience e Mitch stava ancora nella sezione ritmica di Georgie Fame.
l simbolo del batterista-rock dei primordi se lo giocano loro tre, perché di Ringo abbiamo già detto, mentre Charlie Watts, dietro i tamburi dei Rolling Stones, è sempre sembrato un personaggio finito per caso in quel posto, con quella sua assenza-eleganza da jazzista un po’ distaccato. Keith, Mitch e Ginger (uno che non disdegnava di suonare sul palco in assoluta solitudine per una quindicina di minuti mentre gli altri Cream, Eric Clapton e Jakc Bruce andavano dietro le quinte ad assumere sostanze varie e alcool), invece, erano convinti fino in fondo, come d’altra parte lo era Michael Shrieve, che consegnò i suoi ventanni irruenti e selvaggi al concerto di Woodstock dove lo si può vedere spingere come un ossesso dietro il Santana di Soul Sacrifice.
Questi, insomma, sono le leggende, gli altri sono arrivati dopo e in un modo o nell’altro ne hanno ripreso le lezioni.
E allora – se si parla dei successori – l’elenco dei grandi si allarga all’elegantissimo Jim Capaldi dei Traffic, al virtuosissimo John Hisemann, al perfetto Carl Palmer (noto soprattutto per il lavoro fatto con Keith Emerson e Greg Lake), al potente John Bonham dei Led Zeppelin. Non sempre personaggi notissimi, come ad esempio John Hisemann, che pure è stato un personaggio dall’influenza eccezionale sul rock inglese, superstar in una band di superstar, i Colosseum, poco noti oggi, ma che nei Settanta aveva più seguito dei Pink Floyd (almeno fino all’uscita di “The dark side of the moon”). E infatti nelle classifiche “dei migliori” dell’epoca (realizzate dal New Musical Express) Hisemann – dominatore per anni – fu scalzato da Nick Mason dei Pink, negli stessi anni in cui faceva capolino tra i migliori anche un certo Franz Di Cioccio, indimenticato batterista della Premiata Forneria Marconi.
Ma nell’elenco di quelli che hanno lasciato un segno tra i batteristi rock non sono da dimenticare personaggi come il giapponese Stomu Yamastha, Jeff Porcaro (dei Toto), Max Weinberger (per decenni con Springsteen), Phil Collins (che prima di darsi alle ballate suonava la batteria – e lo faceva bene con i Genesis), Mike Portnoy (Dream Teather), Don Henley degli Eagles – il primo batterista cantante (se si escludono le canzoni cantate da Ringo nei Beatles, With a little help e Octopus’s garden), nonché autore di ballad eterne, come Desperado – oppure Stewart Copeland dei Police e Neil Peart dei Rush, sicuramente due tra i fondamentali drummers della storia.
Certo i nomi da ricordare sarebbero mille e mille di più, con differenze a volte minime, a volte abissali. C’è chi viene dal jazz, chi sbuca dalle scuole musicali con un bagaglio teorico mostruoso, chi ha la precisione cronometrica nel sangue. Tutti, comunque, sanno come spingere avanti il treno del ritmo, come conquistare il battito cardiaco della platea che poi è – dicono i neurologi – il segreto del successo della musica rock.
Fin qui tanti mostri della batteria, autentiche divinità della rullata e del ritmo sincopato. Ma ricordiamoci anche di chi non ha lasciato… grandissime passioni. Già perché ogni tanto il batterista è stato l’incapace di turno. Il pensiero vola subito a sir Ringo Star, arruolato non per meriti artistici nella band più famosa del mondo, i Beatles. Ma probabilmente c’è stato qualcuno di “peggiore”. E questo qualcuno lo si può vedere all’opera nel (solito) festival di Woodstock: sto parlando del batterista dei Canned Heat, strepitosa blues-band californiana passata alla storia per una serie di incisioni con Johnny Lee Hooker e per due canzoni, Goin’ up the country e On the road again, con la voce in falsetto del cantante Bob Hite. Il nome del batterista incriminato è Fito de La Parra. A quei tempi, nonostante suonasse davanti a mezzo milione di persone, era uno dei peggiori, imbattibile. Gli anni sono passati, Fito suona ancora: è sicuramente migliorato, ma non passerà di certo alla storia per la sua precisione…