Il maestro, dopo il concerto milanese, ti guarda con occhio incerto e intimidito, fendendo la folla che lo assedia in camerino. Come volesse dire: grazie di essere venuto ma qui non ci si può scambiare che qualche confusa cordialità. Perché non torni a trovarmi a Pavana? Arrivederci dunque a Pavana, la mitica località dell’Appennino che Francesco Guccini ha eletto da tempo a sua dimora: lì si potrà riprendere il filo di tanti incontri.
Meglio così, meglio così. Così da non dovere esplicitare col diretto interessato l’impressione di sdoppiamento che il concerto ci ha procurato. A volte è davvero sgradevole, dopo due ore di concerto, dire quello che pensi a un artista che hai seguito per tanti anni e a cui, in fin dei conti, vuoi bene come a un vecchio amico (se poi sei stato suo “biografo”, come il sottoscritto, le cose sono ancora più imbarazzanti). E poi riabbracci con lui il manager, i musicisti, gli accompagnatori, tutta gente che stimi e che rivedi volentieri. Però non ci si può nascondere dietro un dito, le cose stanno così: ci sono, da molto tempo, almeno due Guccini.
C’è un Guccini populista un po’ alla grossa che fa l’antiberlusconiano alla moda, battutista grossolano, antigovernativo andante. Uno che cerca il facile consenso degli 11.000 (undicimila!) ragazzi (no, non reduci: ragazzi!) venuti ad ascoltarlo. Uno che volutamente spacca il ritmo musicale e poetico del suo concerto con lunghe tirate goliardico-polemiche di cui si farebbe volentieri a meno. Se non altro per problemi di mancata originalità.
Anche perché intralcia continuamente l’altro Guccini, il cantante in gran forma (68 anni di corde vocali portati splendidamente), il musicista navigato, il band leader sicuro. Che canta un proprio repertorio d’autore tutt’altro che ideologico o goliardico: il canzoniere di Guccini ha un peso, nella cultura musicale e poetica italiana degli ultimi quarant’anni. E poi ci piace da matti che non si butti via, che ormai scriva poco e con sincerità (quando non si fa prendere dal demone del “dover essere” che presiede a certe canzoni come Canzone per Silvia o Stagioni).
Canta, anzi ricanta soprattutto, il vecchio maestro. Dal carniere dei classici estrae Noi non ci saremo (non mi ero mai accorto della semplice ma innovativa poetica dell’assenza, di fronte a un mondo prima distrutto e poi rifiorito), In morte di S.F., La canzone del bambino nel vento (Auschwitz), Dio è morto. E qui si canta anche noi, punto e basta.
Però poi c’è la sperdutezza di chi cerca senza trovare in Vedi cara e c’è il senso drammatico del tempo perduto per sempre in Un altro giorno è andato (“Professionisti acuti, fra i sorrisi ed i saluti / ironizzano i tuoi dubbi sulla vita / Le madri dei tuoi amori sognan trepide dottori, / ti rinfacciano una crisi non chiarita / La sfera di cristallo si è offuscata e l’ aquilone tuo non vola più /Nemmeno il dubbio resta nei pensieri tuoi e il tempo passa e fermalo se puoi”), insieme all’orizzonte per nulla consolatorio de Il vecchio e il bambino.
E poi Guccini 2008 ha ancora la libertà di cantare così di sé, in Canzone delle osterie di fuori porta: “Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta/Ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta/Qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore/e insegue una maturità, si è sposato, fa carriera ed è una morte un po’ peggiore…/Sono più famoso che in quel tempo quando tu mi conoscevi/Non più amici, ho un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi…/Ma non devi credere che questo abbia cambiato la mia vita,/è una cosa piccola di ieri che domani è già finita/Son sempre qui a vivermi addosso, ho dai miei giorni quanto basta/ho dalla gloria quel che posso, cioè qualcosa che andrà presto, quasi come i soldi in tasca”. Assoluta sincerità, assoluta nudità. Pensate perciò quanto è sgradevole, dopo una simile intensità di racconto e di interpretazione, che parta una sgangherata tirata sulla riforma Gelmini… Insomma, due Guccini a confronto, ma solo uno dei due ha segnato definitivamente la canzone d’autore italiana. Quello resterà, come resteranno il suo amore alle radici popolari montanare e il distacco dal personaggio che il pubblico si è costruito a suo uso e consumo. Quel pubblico che ha trasformato La locomotiva, geniale parafrasi della canzone anarchica ottocentesca, in un inno politico a pugno chiuso che oggi sembra davvero fuori tempo massimo. Difficile, lo comprendiamo, resistere alle sirene di un pubblico che ti vuol bene e nell’abbraccio prova a stritolarti, a cannibalizzarti. Forse Francesco Guccini, qualche anno fa, avrebbe provato almeno a sfotterlo. Poi – ma per fortuna lo fa anche oggi – sarebbe tornato alla pace dei suoi monti.



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