Cosa sarebbe oggi la musica contemporanea se non fossero prematuramente morti tanti padri del jazz? Ho sempre affiancato, ad esempio, la figura di Coltrane a quella di Coleman per la carica esplosiva e rivoluzionaria della loro musica e per la personalità. Il primo come uno dei più influenti jazzista della storia, il secondo come il grande incompreso negli anni delle sue prima sperimentazioni.
Cosa sarebbe oggi la musica di Coltrane? Come si sarebbe evoluta? Bene, se è impossibile poter immaginare una risposta a questa domanda, allo stesso tempo ha dell’impossibile, tanto è stata entusiasmante, invece la risposta che ha dato di persona Ornette Coleman qualche sera fa a Milano, per la rassegna Aperitivo in concerto.
Ornette Coleman è passato alla storia per aver inciso nel 1960 “Free Jazz” un disco che è stato poi eponimo della stagione culturale della musica jazz che va sotto il nome appunto di Free Jazz; una stagione spesso travisata o ideologicamente estrapolata dal suo contesto e accostata a ogni tipo di espressione culturale nel marasma di quegli anni di contestazione. Troppo spesso l’accostamento, ’68 – Free Jazz, appunto, o Free Jazz – lotta politica degli anni Sessanta, ha generato dei colossali fraintendimenti di cui ancora oggi (e il 2008 è stato l’anno dei festival che hanno riproposto queste fuorvianti tematiche) se ne celebrano gli anniversari. Se la parola Free, libertà appunto, deve essere accostata alla musica e alla personalità di Coleman, essa va intesa innanzitutto come libertà da schemi, ideologie, clichè, ovvero libertà come espressione della ricerca umana. Per Ornette Coleman la musica è stata sempre materia viva, oggetto di uno scandaglio incessante che, in maniera impressionate, va avanti ancora oggi e che segna un passo per la confusione della musica dei giorni nostri.
Si parla di crisi dell’avanguardia e della musica contemporanea (intendendo come musica contemporanea, quel tipo di musica che si discosta dai facili appetiti della musica di consumo): Coleman è un esempio vivente di tentativo di risposta opposto a quelle accuse di intentellettualismo o disumanità di certi progetti; in questo caso la ricerca musicale va di pari passo a una ricerca spirituale.
Coleman nella serata del 3 novembre si è presentato con un quartetto particolarissmo, espressione di una storia di sperimentazioni lunga quarant’anni: Sassofono contralto (o tromba e violino) batteria – suonata dal figlio Denardo – e due bassi – il contrabbasso di Anthony Falanga e il basso elettrico di Albert McDowell – per creare degli incastri contrappuntistici unici e una espressività frutto di una volontà assoluta nel creare “musica d’insieme” o improvvisazione di insieme, corporea, viscerale, vitale.
Un organico simile è una rarità nel mondo jazzistico e la serata al Manzoni ha messo in luce il frutto di una personalità vivace che ha creato un impasto melodico, armonico, ritmico, all’interno del mondo improvvisativo del jazz, per nulla intellettuale.
La musica proposta è stata volutamente spiazzante e complessa. Tutte le composizioni di Coleman sono espressione di forze contrastanti che interagiscono tra loro: da una parte la libertà espressiva che spesso giunge a dei livelli di complessità e rarefazione musicale che un orecchio non avvezzo giudicherebbe caotici e, dall’altra, un integrale e sincero ancoramento nella dimensione melodica della musica e in quella armonica e ritmica.
I suoi temi sono leggibilissimi. Le sue composizioni sono accessibili e godibili a diversi livelli. Il suono del suo sassofono è qualcosa di unico nel panorama strumentale del jazz. Un suono puro, drittissimo. Quasi essenziale.
Questo è il dato più sconcertante della sua musica: egli è assolutamente figlio del suo tempo, cioè la sua musica non si rifugia in una consolatoria banalità espressiva (come pensano alcuni epigoni, molto seguiti oggi, che cavalcano gli appetiti sentimentali frutto di una mancanza educativa della dimensione dell’ascolto), ma è musica spiazzante, a tratti sghemba, sfuggente, ma allo stesso tempo pervasa da linee melodiche cantabili e progressioni armoniche riconoscibili.
Da una parte la libertà assoluta per impasti sonori e dall’altra la creazione di musica improvvisata quasi contrappuntistica segno di una fusione tra gli interpreti di toccante intensità. La sua musica, in nuce, è sempre stata così. Anche nei periodi più sperimentali in realtà egli ha fatto sempre emergere questa dimensione, ed oggi è possibile coglierla ancora meglio.
Il dialogo tra tradizione ed innovazione è sempre costante. Uno dei momenti forse più toccanti è stata una rilettura di Bach, dal titolo, appunto, Bach. Il tema del brano è stato esposto dal contrabbasso con l’arco, il basso elettrico ha tessuto un intreccio armonico rigoroso, così come la batteria, ma il sassofono di Coleman ha dialogato per tutta la durata del brano in maniera estemporanea con questa tradizione con frasi spezzate, accenni, tensioni e cadute. Espressione di un uomo consapevole di un passato che non è più il suo, ma drammaticamente anelato. Non una nota si incastrava “correttameate” con quelle bachiane, ma ciò che emergeva era appunto un tentativo di dialogo tra due mondi diversi, uniti, in realtà, dallo stesso sincero attaccamento a quelle tre dimensioni della musica che rendono questa, espressione di un’umanità non perduta: ritmo, melodia, armonia.
Nella consapevolezza di aver attraversato delle stagioni drammatiche come quelle del secolo scorso, è emerso in realtà come Coleman non abbia mai perso di vista la propria umanità. Ed è innanzitutto questa dimensione umana della sua musica che attraversa e traspare nelle sue performance.
Brani come Waiting for you oppure Jordan, hanno fatto emergere tutto questo grazie anche alla caratura dei musicisti che hanno accompagnato il maestro, in particolare i due (contra)bassisti. Soprattutto un brano, Lonely Woman, che ha chiuso, come richiestissimo bis, la serata ha fatto toccare con mano quanto sopra esposto.
Sono seguiti dieci minuti di standing ovation da una platea commossa che magari inconsapevolmente ha colto innanzitutto questa cifra stilistica drammaticamente umana della sua musica. La ricerca musicale di Coleman è un esempio illustre per i nostri tempi perché senza rinnegare nulla di ciò che si è attraversato nel secolo scorso in realtà è espressione di uno sguardo costante a quella dimensione propria della tradizione musicale del nostro mondo. Bisognerebbe scavare la sua personalità per capire e penetrare meglio la sua musica, incontrare la sua spiritualità, cioè il proprio essere uomo.
Mi porto negli occhi, andando via dal concerto questo genio assoluto di 78 anni che con la sua esile figura si sdraia sul palco a incontrare il pubblico e a firmare autografi. Non è cosa da poco.
(Michael Alberga)