Claudio Chieffo un anno dopo. Pensi inevitabilmente al suo sorriso diretto, al suo abbraccio pieno di energia, alla sua inesausta vocazione alla scrittura per canzone. Ma anche alla malinconia che nascondeva: bisogna essere uomini interi, e dunque pieni di domande, per scrivere cose che riguardano tutti. Però, paradossalmente, questo è un tempo non solo di rimpianto. È invece un tempo di bilancio, e lo sarà sempre di più.
Ora che l’amicizia (incomprensioni comprese) non può più farci da velo, pesiamo la sua eredità, le sue tante canzoni, e ascoltandole, ricantandole, ne prendiamo le misure. E la cosa ci spiazza. Ci spiazza perché le misure sono assai più larghe ed universali del previsto.
Cantautore “cattolico”? Cantautore del Papa? Cantautore di Cl? Queste cose le scrivono i giornali, e nella loro grossolanità dicono in fin dei conti quella che è solo la punta dell’iceberg, innegabile ma come sempre semplificatoria. È lo stesso metodo che fa di Bob Dylan un cantante di protesta, di Lou Reed un “maledetto” del rock e di Vasco un mito giovanile, anche se è stempiato come un impiegato di banca. Niente di falso, in fondo, ma niente che colga qualcosa di più intimo e profondo. Voglio dire: se provi ad andare dentro l’opera di Chieffo, se provi ad ascoltarla, leggerla, cantarla come fosse cosa nuova (bisognerebbe sempre farlo con le grandi canzoni), non ha più etichetta né scuderia. È figlia di un’appartenenza fatta di carne e sangue, non di schemi e distanze, è umanamente bella, poeticamente sottile, personale e insieme popolare.
Sapete che cosa mi auguro, oggi che Claudio non c’è più? Che diventi davvero di tutti, che stupisca e colpisca chiunque, che lo cantino il colto e il rockettaro, l’intellettuale e il cantante alla moda. Ci sono parole d’amore, di storia, di fede, colori violenti e sussurri, fotografie e segreti scritti per tutti. Io sogno che lo cantino Jovanotti e il Liga, la Pausini e Dalla. E che i rispettivi pubblici lo scoprano quasi inavvertitamente e si ritrovino a cantarlo senza sapere chi è stato, ma solo perché canta cose che gli servono, gli fanno compagnia. Allora, solo allora, scatterà la voglia di saperne di più, e magari si ritroveranno a loro volta spiazzati dall’imponenza di una storia che ha un volto e un indirizzo preciso.
In fondo, quando a poco più di vent’anni Claudio mi affidò la cura musicale del suo disco La casa, capivo poco della profondità delle sue canzoni. Eppure ne ero innamorato, come allora ero innamorato di James Taylor, dei Beatles, di Dylan e della musica popolare. Per me Chieffo era identico a loro, aveva talento e capiva la vita. Non ho mai cambiato opinione, e sono orgoglioso di avere camminato per qualche tempo accanto a lui. Anzi, credo di dovergli qualcosa della mia strada.
Per cui, un anno dopo, semplicemente dico: grazie Claudio.