Si ostinano a chiamarlo “compositore-teologo”. Così ne sminuiscono il valore artistico e ne offuscano pure quello cattolico. Uomo vulcanico, musicista temerario, organista fenomenale. Un protagonista del ventesimo secolo. Suoi allievi sono stati i più grandi nomi del Novecento musicale: Boulez, Stockhausen, Xenakis. Inquieto, provocatore, sempre in ricerca, a suo modo rivoluzionario: fonda il gruppo “Jeune France”, con l’intento di diffondere le avanguardie musicali. Inventa una linguaggio audace e complicatissimo che utilizza centoventi formule ritmiche indù (i tâla) e greche. Attinge ai modi gregoriani e li rinnova. Prevede dodici tipi di caduta sul tasto del pianoforte, distingue e riordina molteplici campi di intensità a struttura cangiante, classifica formule melodiche di durata prestabilita ordinate simmetricamente (sedici modi a trasposizione limitata), pratica la serializzazione integrale. Nelle sue partiture cita letteralmente suoni della natura (innumerevoli canti d’uccelli, da lui personalmente trascritti durante sedute “dal vivo” nei boschi della Francia). Impiega avveniristici strumenti musicali (le Onde Martenot) per descrivere paradisiaci canti d’innamorati. Suo il brano più importante scaturito in tempo di guerra, il “Quartetto per la fine dei tempi”, ispirato all’Apocalisse, scritto nel campo di prigionia di Görlitz, in Slesia, nel 1940. Forse lo spartito cameristico più alto del secolo appena trascorso. Questo e altro ancora, nella folgorante carriera di Messiaen.
Tuttavia, la sua musica si pone agli antipodi di tanta produzione novecentesca. Non trasuda ansie, non gronda sangue, come moltissima arte moderna. All’urlo sostituisce la pace cristiana, la beatitudine religiosa all’angoscia. “Ebbi improvvisamente coscienza della bruttezza della natura”, dichiara un pittore a lui contemporaneo. “Voglio essere un romantico: avere coscienza delle bellezze della natura e della grandezza della divinità”, replica Messiaen. Il musicista svizzero Klaus Huber proclama: “L’artista deve sconquassare ogni essere umano, deve sentirsi in dovere di fargli subire un trauma, aprendolo verso l’agonia del secolo”. Dissente Messiaen: “Ciò che cerco è una musica che dia piaceri voluttuosamente raffinati al senso dell’udito”.
I suoi colleghi novecenteschi strillano, provocano, sperimentano, scherzano, si (ci) annoiano. Dietrich Schnebel, in Visible Music, piazza un direttore nella sala vuota, a dirigere il nulla. John Cage accende e sintonizza a caso dodici apparecchi radiofonici (Imaginary Landscape n. 4). La Monte Young percuote un gong per otto ore di fila. Cornelius Cardew prevede “mille e una azioni”, nessuna musicale, scelte a caso dall’elenco (Scratch Music). Mauricio Kagel sbatte ritmicamente una sedia, in Dressur, mentre in Pas de cinq colpisce il terreno con un bastone da passeggio. Karlheinz Stockhausen compone (compone?) musica (musica?) per “parti del corpo e chiavi inglesi”. Potremmo continuare a lungo. Questa è una fetta di musica appartenente dell’immediato passato, che l’altro ieri mandava in solluchero Mario Bortolotto e cultori consimili, che oggi non fa più nemmeno sorridere.
Il giudizio di Messiaen? “Questo secolo febbricitante, questo secolo sconvolto, è un secolo di pigri. Compositori che producono troppo, senza prendersi il tempo di riflettere. di maturare le loro convinzioni affrettate”. “Suonare” il proprio corpo? “Amo il pianoforte. L’ho suonato a lungo e resta il mio strumento preferito. E poi sono stato un organista. Amo l’organo dalla sonorità potenti, schiaccianti”. Tagliare con la tradizione? “La musica è un linguaggio. Cercheremo innanzitutto di far parlare la melodia. Che essa resti sovrana”. Gettare alle ortiche i Maestri? “Beethoven ci ha lasciato modelli immortali. Anche negli antichi canti popolari francesi, ma soprattutto nel folklore russo vi sono melodie notevoli”. Voce di un artista diverso, non ideologico, inattuale, isolato e solitario.
Quale la vena segreta, unificante, indicibile, imbarazzante, della poetica di Messiaen? E’ la sua incrollabile fede cattolica (ottantenne, ha ricevuto il Premio Paolo VI), da lui sempre considerata metodo concreto di conoscenza della realtà e fonte primaria d’ogni creazione. Nel 1978 lo dice a chiare lettere: “Le ricerche scientifiche, le prove matematiche, gli esperimenti biologici non ci hanno salvati dall’incertezza. Al contrario, hanno aumentato la nostra ignoranza, mostrandoci sempre nuove realtà sotto ciò che noi credevamo essere la realtà. La sola realtà è di un altro ordine: essa si colloca nell’ambito della Fede. E’ attraverso l’incontro con un Altro che noi possiamo comprenderla. La musica può prepararci a tutto ciò come immagine, come riflesso, come simbolo”.
Parole cadute nel silenzio. “Il suo tempo verrà”, titolavano in occasione del suo ottantunesimo compleanno. Il tempo lo ha invece reso sempre più lontano, dimenticato, fuori luogo. Critici ottusi lo hanno apostrofato come “politeista”, “panteista”. “La mia fortuna è quella di essere cattolico. Sono nato credente e i testi sacri mi hanno colpito fin dall’infanzia. La mia musica esprime sentimenti nobili, e specialmente i più nobili di tutti: i sentimenti religiosi esaltati dalla teologia e dalle verità della nostra fede cattolica”, ha tentato di precisare. Niente da fare. La cecità del mondo accademico è continuata: ingenuo, chiuso, integralista, austero, hanno aggiunto. Al contrario, le sue partiture sono ridondanti, incontinenti. L’opera S. Francesco d’Assisi (otto anni di lavoro) è un monstrum ineseguibile per durata e complessità. La Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo e E aspetto la risurrezione dai morti prevedono un’orchestra smisurata. Neppure Berlioz aveva osato tanto. Inclassificabile, sospetto, prolisso, illusionista, hanno puntualizzato. Qualcuno l’ha perfino chiamato “ombroso”, mentre è stato il musicista della gioia e della luce, ha praticato la sinestesia e le sue linee esuberanti, tutte le volte, hanno evocato una pericolosa sensualità. “Neanche la più raffinata immaginazione riuscirà mai a raffigurarsi e a descrivere la luce del Signore. Non ci sono parole per dirlo”, scriveva S. Teresa d’Avila. Però ci sono i suoni di Messiaen. Lui conferma: “La musica ci porta a Dio, per difetto di verità, fino al giorno in cui Lui ci abbaglierà per eccesso di verità. Questo è il senso della musica”.
Tutti gli studiosi ne hanno magnificato la radicalità della scrittura, analizzata e catalogata nei suoi mille dettagli, ma ne hanno tradito in pieno il valore allusivo e simbolico. Hanno sempre tralasciato il suo costante riferirsi a precise esperienze e verità di fede. Raffaele Pozzi, il più grande conoscitore italiano di Messiaen, non ha dubbi: “Una certa visione ideologica ha rimosso tutta la componente extramusicale di Messiaen e si è concentrata solo su procedimenti tecnici astratti. Tale approccio non è fecondo e ne fraintende la comprensione globale. Per capire il pensiero musicale di Messiaen bisogna invece partire dal suo cattolicesimo, dal suo misticismo visionario”. Si spinge oltre il filosofo J. M. Velasco: “Messiaen pone il mistero di Cristo al centro della propria esperienza”.
Messiaen è stato un veggente. La sua stoffa è la stessa dei Baudelaire, dei Rimbaud. Messiaen vede nell’aldilà. Penetra in quella che Claudel aveva chiamato “l’immensa ottava della Creazione”. In una conferenza dedicata al tema suono-colore, così racconta: “Voglio fare come i maestri vetrai del Medioevo. Non spiegare nulla, ma abbagliare.” Il ruolo dell’artista nel mondo moderno? “Aprire qualche porta, staccare qualche stella lontana. Essere grande artista, grande artigiano e grande cristiano”.
Nelle sue composizioni Messiaen lancia Venti sguardi al Bambino Gesù (composizione per pianoforte del 1944), rappresenta L’Angelo che annuncia la fine dei tempi, descrive le sovraumane qualità dei resuscitati ne I corpi gloriosi (sottigliezza, forza, agilità, trasparenza, gioia); narra della Natività sottolineando con forza la maternità verginale di Maria, parla del Trasporto della gioia di un’anima di fronte alla gloria di Cristo, racconta della Morte delle Vita che si affrontano in un mortale duello. Immagina (vede) l’Eternità, raffigura acusticamente la Città Celeste. Si addentra nel Mistero resosi incontrabile nell’Incarnazione (da qui l’aggettivo “mistico” che da sempre lo contraddistingue). Nessun musicista lo aveva tentato. Nulla di esoterico in lui, nessuna new age. Tutta la sua opera è lì a dimostrarlo: scrive Nove meditazioni sul Mistero della Trinità, contempla Il SS. Sacramento, immagina L’apparizione della Chiesa Eterna, si siede al Banchetto celeste, omaggia Giovanna d’Arco, s’inginocchia di fronte alla Presenza Divina. Messiaen ci istruisce nella fede come facevano le cattedrali medievali, a tratti anche accecandoci, in una dantesco “trasumanare”.
Dal tempo del divenire al tempo dell’Essere “Tutto è simultaneo, tutto scintilla, tutto è un concerto senza nulla che cominci o finisca”, scriveva Paul Claudel in un saggio del 1937 dedicato alle vetrate delle cattedrali francesi. Quello che fa Messiaen con ogni sua nota. “Questa è la mia vocazione. Non posso non creare musica, con estrema naturalezza, come il melo produce mele, come il rosaio produce rose”.
Certo, è musica di difficile comprensione, che nulla concede all’ascoltatore. Niente di simile abbiamo sentito prima e niente è comparso dopo. Musica che rinvia ad Altro da sé. Che pesca nel Mistero. Musica che torna ad essere preghiera, “una mano tesa nell’oscurità che vuole afferrare una parte della grazia, per poterne poi diventare dispensatrice”, secondo le parole di Franz Kafka.