«Dall’inferno della droga alla gratitudine per ogni nuovo giorno che si spalanca davanti ai tuoi occhi». Questo il tragitto che fra’ Claudio Canali, ex leader della rock band italiana “Biglietto per l’inferno”, ci racconta. Nel 1976 il gruppo si era fatto notare nelle radio e nei circuiti musicali italiani. Moltissimi i concerti, i progetti, gli inviti in Italia e all’estero. I cinque musicisti avevano appena pubblicato il loro secondo e ultimo disco, compimento di un’effervescente stagione, quella del rock progressivo italiano (Pfm, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme), che tante novità avevano lasciato sul tappeto della musica italiana.
Renzo Arbore, nel Dizionario della canzone li definisce «l’anello mancante tra l’heavy rock e il rock sinfonico». Altri manuali li classificano “miglior gruppo rock italiano dell’epoca”. Testi arrabbiati e imploranti, pugni e bestemmie rivolte al cielo, canzoni che urlano di solitudini e di angosce esistenziali, che nessun successo o carriera potrà mai colmare. Il leader del gruppo, voce solista, flautista, mente artistica della band, Claudio Canali, così cantava in La canzone del padre: «Mi ritrovai solo con la mia rabbia, a voler dimostrare che non ero coniglio. Di concerti ne ho fatti a migliaia, ma poi ci si trova, come sempre, da soli. La gente guarda, ma la gente non vede quello che veramente succede. Se ti guardi attorno, provi schifo e paura».
In Confessione: «La mia vita triste e infame, passata a uccidere e rubare, ritorna ogni notte col terrore di non trovare chi mi possa salvare». «Può aiutare la religione? almeno un prete, per chiacchierar”? Preti? Mai visti! chi sono? Che fanno? Ciarlatani, mercanti o profeti? ma tolgano questo mio affanno!». Canali racconta storie maledette: omicidi che non invocano perdono («Ho ucciso un bastardo che avrebbe voluto coprire coi soldi il suo sporco passato»); il suicidio di un amico, che il mondo “sporco e idiota” condanna disgustato; uomini estremi che gridano al cielo il loro desiderio di pace: «So solo ammazzare, io. So solo rubare, io. Altro non so far, io. Insegnami tu. Che cosa credi amico, che esista qualcheduno che sappia ancora amare? No. Ormai su questa terra, l’amore non lo sanno cos’è! Sulla terra regna una regina strana, che si chiama ipocrisia. Ma spero che il nostro Dio, dall’aldilà, veda e perdoni la nostra empietà».
L’ultimo brano della band, prima dello scioglimento, La Canzone del padre, è un nero testamento: un padre ubriaco che picchia il figlio e gli grida «vorrei che tu non fossi mai nato!». Ma il figlio replica: «Mio odiato padre, perché non capivi che la mia vita non è un tuo programma?».
Da quelle parole, la loro storia è come un sasso che cade nell’acqua: il tonfo, cerchi concentrici, silenzio. Quel Padre, a lungo atteso, da sempre inconsciamente pregato, Canali lo incontrerà molti anni più tardi. Nel ’91 aggiusta il tetto dell’eremo di Minucciano, nella Garfagnana toscana, sulle selvagge colline intorno a Lucca. Il silenzio del luogo, la vita dei monaci, la bellezza intorno: le domande di un tempo riemergono intatte, brucianti. Nel ’94 decide di entrare come novizio nella comunità religiosa, nel ’99, a 46 anni, prende i voti perpetui. Così ci sintetizza: «Ero perduto e il Signore mi ha ritrovato».
Gli leggo una frase di don Giussani: «La vita è “per”, è una tensione, è una mossa, è un movimento. Solo dalla Grazia scaturisce l’audacia e l’audacia implica l’affermazione di uno scopo». Ritrovi la stessa audacia e lo scopo di un tempo? «Sì, queste parole hanno centrato e sintetizzato in modo molto vicino alla verità, l’evoluzione della mia “quasi inconsapevole” ricerca. Non proprio una mia ricerca: “Non voi avete scelto me, ma Io ho scelto voi”», precisa.
Così ci saluta: «Che le vostre preghiere muovano la Grazia, e quindi l’audacia, e quindi i fratelli lontani trovino lo scopo vero di questa breve vita. Vi ricordo nelle mie povere preghiere». Fratel Claudio, ancora una volta davanti a tutti.



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