Beethoven continua a stupirci. Molti conoscevano il compositore scontroso, misantropo, intrattabile. Pochi sanno delle sue segrete dolcezze, ne ignorano l’intima affabilità, la risata grassa e contagiosa. Quasi nessuno sospetta un Beethoven religioso e devoto, che prega Dio e lo invoca. Eppure, lui è tutto questo, e altro ancora.
È un genio, quindi parla all’uomo di oggi: risveglia curiosità, accende entusiasmi, colpisce, commuove. La sua statura ci cattura all’istante. I suoi eccessi ci intimoriscono e ci affascinano ancora, a distanza di quasi due secoli. Ma procediamo con ordine.
Beethoven fu certo uomo riottoso e tenace, puro e volgare, plebeo e candido, selvatico, senza vergogne, brusco, chiassoso. “Il Gran Mogol”, come lo definivano: occhi socchiusi, sguardo rivolto verso l’alto, capelli neri come la pece su testa grossa, carnagione color bruno bruciato. Incapace di compromessi, tenero e indifendibile nelle sue ire, nei suoi torrentizi scatti, nella sua totale libertà e curiosità.
Siccome abita accanto alla contessa Keglewitz, ne approfitta per andarle a dare lezione in vestaglia e pantofole. Si informa di tutte le nuove invenzioni, dalla “lanterna per ciechi”, alle ultime trappole per topi, al “gabinetto inodore mobile del dottor Cazeneuve”; gioisce e ride come un fanciullo, inveisce contro chi si commuove durante le sue esecuzioni.
Richiesto di esibirsi per non si sa chi, risponde “per maiali simili non suono”. Così commenta ad alta voce un articolo che sta leggendo sul giornale: “Miserabile! Quello che io cago è meglio di qualsiasi tuo pensiero”. Strappa platealmente la dedica a Napoleone. Spinge un servo giù dalle scale. Getta uno spezzatino in faccia al cameriere. Parla male degli austriaci pubblicamente, per scandalizzare: “E io cago su Vienna”, grida in pubblico. È questo il lato della sua biografia ben conosciuto.
Tuttavia molti altri aspetti sono stati poco indagati dagli studi, spesso fraintesi. A volte taciuti. Prendiamo la sua religiosità. L’argomento è delicato, lo si ritiene impenetrabile. Oppure ininfluente, secondario, poco documentabile.
Beethoven non aderì a nessuna fede rivelata e sempre si rifiutò di riconoscere l’autorità della Chiesa bla bla bla. Questo già lo sappiamo. Sappiamo anche che acconsentì volentieri al consiglio dell’amico medico Wawruch, di ricevere la visita di un prete e i sacramenti, il 24 marzo del 1827, l’ultimo giorno di lucidità (morirà il 26), ringraziando il curato per il conforto che gli aveva donato. Meno noto ancora è che il suo Diario (riferibile al periodo 1812-1818) – sorta di quaderno d’appunti, agenda, promemoria, trascrizione di frasi, proverbi, letture interessanti – si apra e si chiuda con un’invocazione a Dio, in un colloquio costante, fitto, assolutamente libero perché totalmente privato e al riparo da sguardi indiscreti.
Il Diario si conclude con queste parole, copiate da un libro del pastore luterano Christoph Christian Sturm, un volume molto amato da Beethoven, assiduamente studiato e ricco di sue segnature autografe: “Voglio riporre tutta la mia fiducia in Te, Bene costante, o Dio! Sii la mia roccia, la mia luce, per sempre la mia salda speranza”.
In quelle stesse pagine non mancano personali e pressanti invocazioni al Padre. Le malattie che lo tormenteranno per tutta la vita non gli lasciano tregua; e Beethoven prega così: “Dio aiutami, tu che mi vedi abbandonato da tutti. Ascolta la mia umile preghiera”. Si sente triste, solo, stanco; e scrive: “Dio, Dio, mio rifugio, mia roccia, mio tutto. Tu vedi nel più profondo del mio cuore”.
Oppure annota riflessioni di questo calibro: “Mostrami la tua potenza, o Destino! Non siamo padroni di noi stessi. Mostrami la via dove la Palma si innalza sul lontano traguardo”. Altrove: “Da Dio fluiscono tutte le cose limpide e pure”. “Questo sembra essere un pensiero formulato da Beethoven stesso”, rilevano i musicologi, con una punta d’imbarazzo che quel “sembra” lascia trapelare.
Uomo religioso, Beethoven, nella vita e nell’opera musicale. Un pungolo lo accompagna: “Chiedi la ragione per cui le stelle sorgono e tramontano? Quando i morti risorgeranno, il perché diventerà chiaro”, riflette parafrasando Herder. Nello spettacolo della natura riconosce un progetto divino: “Il mondo non è stato formato dalla riunione fortuita degli atomi di Lucrezio. Se nella costituzione del mondo risplendono ordine e bellezza, allora vi è un Dio. La natura intera necessariamente rispecchia l’azione della saggezza suprema”, scrive nel Diario. I suoi amici raccontano di come si sdraiasse per terra, toccando le zolle, accarezzando gli alberi, incurante della pioggia, inebriandosi di quell’immersione, godendo e quasi applaudendo alla vita dell’universo. Sempre dal Diario: “Onnipotente Iddio, nella foresta io sono beato. Ogni albero parla di Te. Quale splendore, o Signore. In queste valli, nell’alto è la pace, la pace per servirti”. La sordità ha solo reso solitario, ma più lucido, più diretto, più vero. Collerico, ironico, coraggioso e buono. Innamorato della vita, sempre, nonostante dolori e avversità. Gli schierano le bottiglie di un buon vino, sul tavolo accanto al letto. Le guarda, consapevole della fine imminente, mormorando: “Peccato, peccato, troppo tardi”. Sono le sue ultime parole.



(Enrico Raggi)

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