Parafrasando Giuseppe Pontiggia e uno dei suoi libri più belli, potremmo dire che Richard Wright farebbe una bella figura in un capitolo di “Vite di musicisti non illustri”. Non perché non fosse un buon musicista, ma perché di sicuro non è stato né passerà agli annali come un musicista leggendario. Un buon musicista, certo, ma non uno di quelli che diventano mito (anche perché questi, di solito, muoiono molto più giovani e sfigati).
Era il più schivo e con ogni probabilità il meno dotato tra i quattro Pink Floyd. Gli altri tre sono e rimarranno più in alto nella classifica dei big (per non parlare di Syd Barret).
Roger Waters è a tutti gli effetti uno dei colossi del rock mondiale, uno dei pochi che in parole, musiche e visioni ha saputo dire qualcosa di interessante riguardo l’uomo contemporaneo.
David Gilmour non ha la statura di Waters, ma ha inventato un suono, ha impresso il “marchio Gilmour” su un feeling chitarristico permettendosi uno dei più famosi “soli” della storia rock, quello di Comfortably numb.
Persino Nick Mason, batterista impetuoso, era più eclettico di Wright, tanto da finire per più anni in cima alla classifica del miglior batterista del mondo.
Umile e artigiano, Wright è sempre rimasto un po’ in disparte, come si vede negli spezzoni non musicali del film Pink Floyd at Pompei: erano gli altri che portavano avanti il progetto globale e gli affari, lui se ne stava sulle tastiere, armonizzava, ogni tanto sperimentava. Senza mai esagerare.
Non era un solista, non era un funambolo delle tastiere. Non era Keith Emerson e nemmeno Rick Wakeman, altrimenti i Pink non avrebbero avuto quel suono. Era un portatore di palla, un mediano, uno che al massimo avrebbe potuto puntare all’Oscar come miglior attore non protagonista. Eppure proprio per questo senza di lui Waters e Gilmour non avrebbero avuto un ottimo facitore di melodie in grado di armonizzare tastiere con così estrema ed efficace semplicità.
Non era un virtuoso, dicevo, e proprio questo ha portato bene a tutti, perché una cosa è certa: il “tappeto di tastiere” è diventato un suo marchio di fabbrica. Quello che si ascolta in Echoes e nella suite di Atom Heart Mother, l’incredibile serie di movimenti iniziali di Shine on you crazy diamond e l’indimenticabile incedere di Careful with that axe, Eugene è solo farina del suo sacco.
Il tappeto sonoro da cui partono i soli di chitarra – diventato negli anni un autostrada per i migliori chitarristi – è un “concetto musicale” partorito da proprio da lui, dal semplice Richard. Come nelle Vite di Pontiggia, quella di Wright è un po’ la storia del musicista non celebre e che mai lo diventerà: quando ha tentato la strada solista ha prodotto due dischi noiosissimi, di cui uno, Broken China, veramente di livello basso.
La parabola di Richard è la stessa di tanti altri comprimari, gente che non passa alla storia fuori dalla cerchia degli strettissimi fans o appassionati. Era un comprimario. E i comprimari non passano alla storia, eppure senza di loro il rock non esistiterebbe.
È un po’ come per Hendrix avere avuto dietro Noel Redding e Mitch Mitchell. Senza di loro chissà. E se Pete Townshend e Roger Daltrey non avessero potuto contare sempre sul basso di John Entwistle, cosa sarebbero stati gli Who? Anche Elvis Presley ha avuto di fianco un chitarrista come James Burton: quasi nessuno lo conosce al di fuori della cerchia degli appassionati. E Bob Marley senza Carlton “Carly” Barrett alla batteria chissà su che ritmi avrebbe dovuto esibirsi. Grandi, essenziali, efficaci, perfettamente “a servizio” delle star: questo il ruolo dei comprimari. A loro agio soprattutto lontano dal mito.
Per questo, lo confesso, li amo “a prescindere”…