Un anno fa moriva Luciano Pavarotti, uno dei più grandi, forse il più grande, tenore italiano di tutti i tempi. La sua voce è conosciuta e amata in tutto il mondo, lascito imperituro di quella che è stata la sua vocazione nonché una delle sue più importanti ragioni di vita, l’opera lirica. Il suo collega Ivo Vinco, straordinario interprete lirico dei ruoli di basso, ci racconta i propri ricordi e la propria esperienza a fianco di questo sommo artista.
Maestro Vinco, che persona era Luciano Pavarotti?
Io credo di essere stato uno degli ultimi colleghi che hanno avuto l’onore e il dispiacere di parlare con lui due o tre giorni prima che morisse. È stato un dolore sentire che quella voce, un tempo tanto potente, era divenuta così flebile. Con Luciano ho avuto sempre degli ottimi rapporti, insieme a lui ho cantato sia la Turandot sia il Trovatore.
Dal punto di vista umano era una persona che mi è sempre piaciuta moltissimo perché aveva tutto lo spirito e la semplicità di un emiliano, di un modenese. A dispetto della grandezza stellare che aveva raggiunto, è sempre stato un uomo semplice che non ha mai confuso la vita pubblica e la carriera con la vita privata.
In passato gli ho mandato alcuni miei allievi, anche solo perché potessero parlare con lui, e Luciano ben volentieri li accoglieva a Pesaro dando loro persino lezioni gratuite, cosa che ha continuato a fare praticamente fino alla fine dei suoi giorni. Figuriamoci, ai miei alunni non sembrava vero di poter avere a che fare col più grande del mondo, ne avevano un’ammirazione sfrenata. Fu attraverso di loro che il mio rapporto con Luciano continuò e crebbe nel tempo. Insieme ci si scambiava giudizi sui giovani più promettenti.
Era un maestro severo?
Non direi severo, era realista. Li incoraggiava, era positivo pur dicendo loro che la carriera del cantante lirico è difficilissima, ma non permetteva mai che cedessero allo sconforto. Il suo incoraggiamento e la sua positività erano sempre presenti. Insegnava loro a cantare contemplando un aspetto sia di realismo sia di positività.
A suo avviso qual era, o quali erano, le peculiarità di Luciano Pavarotti?
Lo studio. Ma non metodico, piuttosto inteso etimologicamente, come “passione”. Lui ha studiato bene, ma ha cominciato tardi, prima con suo padre poi con altri maestri di canto. Ebbe anche come insegnante il maestro Magera, marito di Mirella Freni, che poi lo accompagnò al pianoforte in numerosi concerti. Con Mirella era amico fraterno, nessuna rivalità, nessuna gelosia.
Un altro elemento risiede nel fatto che Pavarotti fu senza dubbio un maestro di se stesso. Riusciva a fare cose che non vengono normalmente insegnate nelle scuole di canto. Era un ricercatore. Nella sua lunga carriera è riuscito a usare la sua voce in certe maniere e in certi modi che trascendono la scolasticità. Se uno è un vero studioso ottiene dei risultati ineguagliabili.
E per quanto riguarda i famosi “tre tenori”? Che cosa ci può dire del rapporto con José Carreras e Placido Domingo?
Avevano un buon rapporto perché si tratta di tre persone intelligenti. Mentre in altre circostanze artisti e artiste hanno avuto, o hanno, rivalità fra di loro, il più delle volte stupide, i tre tenori sono riusciti a costruire questo “miracolo” che sarebbe potuto tranquillamente andare avanti molti altri anni.
La loro eccezionalità li univa anziché dividerli. Quando uno arriva a certi livelli si sente più semplice e modesto di quelli che sono a metà strada. L’amore che loro tre avevano per la musica superava ogni barriera e ogni rivalità.
Appena morì Pavarotti, il musicologo Paolo Isotta scrisse un articolo molto duro nel quale additava il tenore come uno dei maggiori responsabili involgarimento del canto lirico. Qual è la sua opinione in merito?
Innanzitutto ritengo che il problema di molti articoli non sia quello di essere sbagliati, ma semplicemente inutili. I critici ne han dette di tutti i colori della Callas, della Tebadi, della Scotto, della Cossotto, di Di Stefano, di Del Monaco e di molti altri. Ma non c’è nulla da temere. Se il bersaglio è ai livelli che le ho appena citato tutti questi attacchi risultano essere solo delle frecce che si spuntano scontrandosi contro l’aureola che simili cantanti hanno intorno alla testa.
Se Isotta sostiene che l’ultimo periodo di Pavarotti ha dato il via all’involgarimento del canto significa che, probabilmente, non ha avuto un’attenzione filologica nell’ascolto. Mi spiego: si tratta di una questione di mentalità. Per Pavarotti la musica era tutta “musica”. Per questo egli era attento a eseguire in maniera totalmente differente brani tratti dalla lirica da pezzi di musica popolare. Ma io posso garantire che le cose che faceva le eseguiva assai bene. Spero che fra i giovani ne nasca presto uno che riesca a cantare come cantava lui.