A volte può succedere che un affermato cantautore, in questo caso Fabrizio De André, con una già lunga e significativa carriera sulle spalle, decida di affidarsi a un ragazzo di poco più di vent’anni, con un solo disco dietro di sé. È la storia dell’affascinante collaborazione che vide il cantautore genovese, nel 1977, lavorare con il veronese Massimo Bubola per il disco “Rimini”, album che avrebbe segnato una svolta nel percorso musicale di De André portandolo verso sonorità più rock.
L’avventura si sarebbe ripetuta ancora nel 1981, con il disco conosciuto come “L’indiano” dal disegno in copertina, ancora un grande successo commerciale.
Proprio con Massimo Bubola abbiamo parlato di questa straordinaria esperienza: «Anche se ero poco più che ventenne suonavo già da dieci anni la chitarra elettrica e da un po’ meno l’acustica. Lavoravo con una band da sette anni e faceva molti concerti, per quanto scalcinati e male organizzati fossero. Imparavamo le canzoni di Bob Dylan, dei Creedence, degli Stones dei Led Zeppelin e qualcuna ne scrivevo. Suonavo in pratica sempre: con gli scout, suonavo in chiesa, suonavo in strada, suonavo a scuola, suonavo al grest. Avevo sempre la mia chitarra a tracolla e ascoltavo molta musica, soldi permettendo.
Gli amici più corteggiati erano sempre quelli che avevano più dischi. La generazione di Fabrizio era diversa, aveva un altro approccio alla musica, c’era più sofferenza e difficoltà a eseguirla, soprattutto in pubblico.
Leggevo poesie dall’età di 12 anni, perché mio padre era insegnante e traduceva Mallarmè, ma amava tanto anche i tedeschi come Rilke e Holderlin e riteneva che fosse un modo per curare la mia lieve dislessia. Ricordo che avevamo nella libreria un catalogo numeroso di libri delle edizioni Paoline, dove trovai per caso “Le feste galanti” di Paul Verlaine. Così a 14 anni conoscevo già i surrealisti Apollinaire e Paul Eluard ed Andrè Breton e poi Garcia Lorca e Rafael Alberti e il loro maestro Antonio Machado. Poi, anche attraverso la musica, scoprii gli americani Walt Withman e William C. Williams, Walace Stevens ed Ezra Pound, ma soprattutto i poeti della cosiddetta “Beat Generation”, Corso Ginzberg, Ferlinghetti. Tutto questo con un severo liceo classico a Verona, mi servì molto.
Quando conobbi Fabrizio era un po’ stanco e sfiduciato, però era molto curioso di questa nuova letteratura del rock che già aveva affrontato con Francesco De Gregori, con cui aveva condiviso la scrittura delle canzoni di “Volume VIII”».
Che ricordo ha Bubola, trent’anni dopo, di quella collaborazione con Fabrizio? «L’album “Rimini” fu un po’ sofferto. Venne registrato due volte con due arrangiatori diversi, prima a Roma e poi a Milano. Nelle strutture compositive è un album verticale, soprattutto nella parte iniziale cioè nelle canzoni Rimini, Sally, Coda di Lupo, poi da Andrea a Volta la carta si allarga verso la musica popolare e finisce in gloria con la traduzione di Romance in Durango di Dylan e Levy. “L’Indiano”, cioè l’album successivo, fu più semplice, perché avevamo già l’esperienza di un disco ed eravamo entrambi rinati, lui perché scampato a un rapimento e io perché scampato da un anno di duro militare».
Anni dopo Bubola e De André si ritrovano per lavorare alla canzone Don Raffaè: «Era dal disco dell’Indiano che ormai parlavamo in napoletano tra noi e così quando mi chiamò dopo qualche anno per scrivere la canzone avevamo già elaborato da tempo quest’idea paradossale di un rappresentante dello Stato, Pasquale Cafiero che chiede favori a un rappresentante dell’antistato, Don Raffaè. Ci furono poi una serie di fortunate coincidenze, come per esempio quella che in quell’estate andai in vacanza alle Isole Tremiti, che erano un tempo una colonia penale borbonica e dove molta parte della popolazione discendeva dai carcerieri di allora. Tra questi cognomi napoletani antichi c’era appunto Cafiero, che mi fece subito rima con brigadiero. E una bella partenza è importante anche per una canzone.
Una cosa buffa fu quando andai ad ascoltare Don Raffaè ormai incisa e realizzata e Fabrizio si disse preoccupato perchè avevamo sbagliato il testo e che la canzone non funzionava. Ma non cercai di rassicurarlo, ormai lo conoscevo, anzi confermai le sue paure e allora si tranquillizzò. Poi andò tutto bene, la canzone fu addirittura cantata e benedetta da Roberto Murolo, che così la fece entrare nel repertorio della canzone napoletana di sempre, il che per un veneto come me e un genovese come Fabrizio fu senz’altro un risultato insperato».
Massimo ha da poco pubblicato un disco, “Dall’altra parte del vento”, in cui ha reinciso con nuovi arrangiamenti proprio le canzoni che scrisse insieme a De André. Com’è nata questa esigenza? «Il ricordo è la parola che preferisco, visto che non amo le inflazionate parole “tributo” od “omaggio”, soprattutto se non richiesto. Credo che rispettare una memoria e un amico, visto che sono credente, sia qualcosa che trascende e poco ha a che fare con questi fenomeni mediatici. Le canzoni sono una parte di quella memoria e quella più riconoscibile per la gran parte delle persone. Quindi ho riportato quelle canzoni nella dimensione in cui le avevo concepite, riattribuendole a una letteratura del rock italiana, per quel poco che si è sviluppata. La mia convinzione è sempre stata che una canzone non è un insetto per entomologi che va infilata in uno spillo e imbalsamata in una versione per sempre. Anzi trovo molto triste risentire i vecchi arrangiamenti, mi ricorda il karaoke o quelle rimpatriate da vecchi reduci, o le favole per i bambini che vogliono sentire sempre le stesse esatte parole. Le canzoni cambiano come cambiamo noi, i nostri cari, i nostri animali domestici e i panorami delle nostre stagioni interiori ed esterne.
Quale brano tra queste nuove incisioni è quello che lo soddisfa di più, nel quale sente di aver sviscerato, rivissuto, ricreato maggiormente un nuovo sentimento musicale e anche umano? «La ballata Una storia sbagliata dedicata a Pier Paolo Pasolini, mi sembra tra le più ben riuscite in questa versione country. C’è l’epica di un fuorilegge come era e come noi non saremmo mai, citando un grande poeta americano, ma anche Volta la carta che da giga è diventata una lullaby, cioè da quadriglia (square dance) a ninnananna. Questo è un’altra chiave interpretativa che si aggiunge alla prima versione».
Un ricordo oggi di De André, al di là del mito e degli stereotipi di cui si abusa nelle celebrazioni: «Come uomo era una persona curiosa e poliedrica. Amava la botanica e l’agronomia. La floricoltura e la storia medievale. L’astronomia e la cucina. Per molti anni ebbe problemi con l’alcol e poi fumava sempre e in maniera ossessiva, aveva una sofferenza del vivere che poi negli anni superò in parte. Come artista aveva un senso civile dell’arte come liberazione ed emancipazione. In questo io che sono di formazione cattolica e lui che era anarchico ci ritrovavamo, nel senso degli altri cui bisogna dare il meglio di noi, che per me è un modo di dare un senso e di santificare la propria esistenza. Come artista ha dato dignità a questa grande forma di arte popolare e poetica che è la canzone. Prima di lui c’era la canzonetta per radersi la mattina o per le colonne sonore delle commedie all’italiana. Questo non è poco. E anche ora che la canzone per molti media italiani è ritornata ad essere canzonetta, chissà quanto avremmo bisogno della sua voce e della sua autorevolezza».



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