Se n’era andato nel freddo di una mattina milanese, sconfitto da un male impossibile da curare. Da quell’undici gennaio sono passati dieci anni e Fabrizio De André non è stato dimenticato nemmeno per un giorno, fin da quell’affollatissimo funerale nella sua Genova, quando l’Italia delle canzonette e quella dei cantautori si strinse in un unico abbraccio per salutarlo.
«Pensavo, è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra». Mai verso fu così profetico. Faber lo cantava in Amico fragile nel 1975, non immaginando il carico di eredità che avrebbe lasciato dopo la sua morte. Quasi impressiona quanto De André continui ad essere attuale. Forse perché non è mai stato di moda. Del resto, come può esserlo un uomo genuinamente libero, nemico di etichette e schieramenti, tanto convinto della redenzione dell’umanità quanto insofferente nei confronti di false ideologie e regole prestabilite?
È stato amato l’artista colto e complicato, il poeta che si lasciava ispirare dagli esistenzialisti francesi e dai songwriter americani, il figlio dell’alta borghesia che mal tollerava il falso buonsenso e le ipocrisie. Segnato da esperienze terribili, come quella del rapimento in Sardegna per mano dell’Anonima Sequestri, insieme alla compagna Dori, stimato da Bob Dylan, cantato da Joan Baez e idolatrato dall’ex Talking Heads David Byrne.
Di Fabrizio è rimasta viva la sensibilità, difficilmente riscontrabile in altri artisti italiani. Una sensibilità talmente profonda da riuscire a rendere poesia le parti più infime dell’umanità, quelle che nessuno aveva mai avuto il coraggio di portare alla luce, convinto che ci fosse ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore.
Questo l’aveva reso personaggio scomodo per molti, esposto a censure e critiche feroci. Ma lui sapeva andare oltre, sempre in direzione ostinata e contraria. Senza falsi pudori aveva tolto due dita di polvere dai Vangeli apocrifi e messo in musica l’altra vita di Gesù di Nazareth, in uno dei primi concept-album che la storia della musica italiana ricordi: La Buona Novella nel 1970.
Con rabbia e senso di giustizia aveva raccontato del massacro degli Indiani d’America (in Fiume Sand Creek). Abbracciato alla sua chitarra aveva cantato di prostitute e transessuali, di nani e disgraziati, di delinquenti e mariti infedeli, di assassini e fanciulle innamorate, di ereditieri e contadini, di re e straccioni, di politici maneggioni e carceri d’oro, di suicidi e stupri, di padri e di figli. Da sempre convinto che a contare davvero fosse l’essenza di una persona più che le sue azioni.
La voce così morbida e spesso lugubre, sapeva raschiare il fondo di molte anime. Perfino la descrizione di un amplesso diventava delicata. E poi l’amore, sentimento così tanto sfruttato e mercificato nelle canzoni, diveniva sensazione vera e totalizzante. Chiunque abbia collaborato con lui o condiviso amicizia e situazioni porta dentro un segno indelebile. Come la PFM, con cui – nel 1979 – affrontò l’ indimenticabile ed epocale tour che cambiò per sempre la musica di Fabrizio. Ma anche Mauro Pagani, con cui scrisse Creuza De Ma (1984), celebrato disco del decennio. Uno spartiacque nella sua carriera: dopo quest’ album – che conteneva autentici capolavori, come la title-track ma anche Sidùn e Jamin-a tra gli altri – Fabrizio espresse la volontà di non voler cantare in italiano, ma di volersi concentrare esclusivamente sul genovese (che per lui non era un dialetto ma una vera e propria lingua).
Il nuovo lavoro lo svincolò dalle impostazioni vocali ereditate dalla tradizione degli chansonniers francesi e che gli garantì una libertà di espressione, lontana dallo stile che aveva assorbito da Brassens e da Brel e per il quale all’inizio risultò artista ostico a molti. L’appassionata ricerca sul linguaggio e sul suono fatta con Pagani portò la luce nelle sue canzoni l’odore salato del mare lontano, nuove invettive e storie da raccontare. Ma soprattutto strumenti sconosciuti al clichè del cantautore italiano: bouzouki, mandole, mandolini e nuove percussioni.
C’è tanto materiale pubblicato per ricordare questi dieci anni senza De Andrè. Sensazione dominante è un’inalterata nostalgia, ma anche che dopo un decennio nessuno dei temi cari al cantautore ha perso d’attualità. Mentre nel panorama musicale italiano – in evoluzione soltanto apparente – Fabrizio De Andrè resta un punto fermo: in molti hanno cominciato a suonare per merito della sua arte, ma altrettanti non sono riusciti né a imitarlo né a superarlo.



(Roberta Maiorano)

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