In queste settimane il Corriere della Sera, seguendo un progetto ad ampio respiro di ri-pubblicazione discografica (che ha toccato con il cofanetto dedicato a Mogol-Battisti la sua punta di maggior successo di vendite), sta offrendo ai lettori e agli amanti della canzone d’autore, la discografia di Francesco De Gregori. Il cantautore romano, 58 anni, musicista che ha legato il suo nome e la sua produzione ad album fondamentali tra cui “Rimmel” (1975), “Buffalo Bill” (1976), “Viva l’Italia” (1979) e “Canzoni d’amore” (1992), ha scelto per questa operazione musical-editoriale di raccontarsi a uno dei giornalisti musicali italiani più dotati di sensibilità, intelligenza e capacità di narrazione personale. Stiamo parlando di Paolo Vites, caro amico nonché giornalista di profondità speciale.
Abbiamo chiesto a Paolo di raccontarci com’è andata con De Gregori, non tanto per carpire inesistenti gossip, quanto per provare ad andare sotto la pelle del suo incontro con l’autore di Alice. Ecco cosa ne è venuto fuori.
Sei l’autore dell’intervista compresa nel cofanetto che il Corriere ha dedicato a Francesco De Gregori. Un’intervista lunghissima… È stata più una fatica o un piacere realizzarla?
È stato certamente più un piacere. Non capita tutti i giorni di poter scavare a fondo nella vita e nel pensiero di un grande autore di canzoni, famoso poi per come difende la sua privacy.
Quante ore di dialogo avete avuto per realizzarla? E dove è accaduto il tutto?
Abbiamo trascorso due interi weekend a chiacchierare a casa sua a Roma. Più altre rifiniture avvenute via e-mail o nei camerini prima di un suo concerto in un paio di occasioni.
Con Francesco, come del resto con qualunque artista, non è facile constringerlo a “raccontarsi”, bisogna saper cogliere la sua voglia di parlare in qualunque momento questa gli scappi fuori, magari anche al ristorante davanti a un bel piatto di bucatini alla romana…
Spesso si dice che De Gregori è “gelosissimo” della sua vita personale e artistica. Ne consegue che con pochissimi giornalisti “si conceda”. Vero? Cosa è scattato tra lui e te affinché si decidesse in questo “dialogo senza rete”?
È esattamente così. Francesco De Gregori custodisce la sua vita fuori dal palcoscenico in modo molto serio e dignitoso. Spesso è stato accusato di avere in antipatia i giornalisti, ma quello che gli dà fastidio è la banalità, cosa in cui purtroppo si rischia di cadere facendo il lavoro del giornalista. Lui, la banalità, la rifugge, per cui non ama farsi intervistare.
Tra me e lui è semplicemente scattata un’amicizia e una stima reciproca, che durano ormai da quasi vent’anni, da quando ci siamo conosciuti. Un’amicizia nata dalla nostra comune passione per Bob Dylan, scambiandoci registrazioni live di concerti e opinioni.
Una volta mi chiese di fargli avere tutte le registrazioni live che avevo di un brano di Dylan, If You See her Say Hello senza spiegarmi perché e un paio di anni dopo in un suo disco vidi con sorpresa la sua versione proprio di quella canzone. Credo che la sua stima nei miei confronti, che lo ha portato a scegliermi per fare questo lavoro, nasca proprio dalla discrezione con cui ho sempre gestito questa nostra amicizia.
Qual è il ritratto complessivo di De Gregori che secondo te emerge da questa lunga intervista?
Quello di un uomo libero come se ne trovano raramente oggi in Italia e di un musicista che alla soglia dei 60 anni ama ancora fare musica come quando iniziò da ragazzo. Ancora oggi De Gregori si definisce uomo di sinistra, ma assolutamente lontano da qualunque visione ideologica. Tante sue canzoni hanno affrontato il tema della Seconda guerra mondiale visto dalla parte dei perdenti (lo zio di De Gregori, partigiano cattolico, venne ucciso in un increscioso episodio da parte di partigiani di sinistra), ad esempio Il cuoco di Salò, facendo spesso scattare polemiche nei suoi confronti da parte di certi intellettuali. Durante una delle nostre conversazioni, poi, sottolineando la sua grande ammirazione per Pasolini, ha dichiarato di condividere oggi – dopo che negli anni Settanta si era dichiarato profondamente contro – la posizione dell’intellettuale scomparso a proposito dell’aborto, che cioè esso non sia “un diritto civile”. E non dimentichiamo che l’anno scorso, durante le tante celebrazioni dei 40 anni del 1968, lui è stato l’unico in Italia ad andare… contro, con una canzone intitolata appunto Celebrazione che faceva a pezzi i miti del ’68.
Quali sono le "parole chiave" da seguire per comprendere meglio De Gregori?
Non credo ci siano delle parole chiave. O forse sì: "canzoni d’amore". Riascoltando a fondo il suo repertorio sono rimasto colpito di come il 90% delle sue canzoni tratti l’amore, in modo quasi shakesperiano, quasi dantesco, cioè come mistero che rimanda ad altro da noi. Lui stesso ha definito L’angelo di Lione "una canzone sulla trascendenza dell’amore".
Credi che il cantautore romano sia il più grande autore della nostra canzone? Se sì, perché?
Non saprei. Si batte bene accanto a uno come Fabrizio De André. Forse ciò che lo rende "grande" è che dopo 30 anni di carriera è ancora vitale e inventivo, a differenza di tanti suoi coetanei.
Fondamentale per un musicista, è capire le proprie radici, i propri riferimenti. Dylan continua a essere il background dell’autore di Rimmel?
Assolutamente sì. Non tanto nell’aspetto musicale, quanto nell’attitudine, quella dell’assoluta improvvisazione, dell’istinto a discapito della programmazione, della voglia di suonare dal vivo più che nel incidere dischi in studio. D’altro canto Bob Dylan, come De Gregori, è un altro grande "uomo libero".
Come molti – o forse tutti i grandi autori italiani e anglo-americani – dopo anni di produzione alacre, in questi ultimi anni anche De Gregori ha di molto diradato i dischi di nuove canzoni. Mancanza di nuove idee, vena non più feconda o nuove leggi di marketing?
È un po’ quel che ho già risposto: una volta durante le nostre conversazioni mi ha detto di non voler più fare dischi, solo andare in giro a cantare dal vivo. Non so se sia vero, ma anche Francesco, come tutti gli artisti della sua generazione, è un po’ spiazzato dai mutamenti del mondo della musica di questi tempi recenti: le case discografiche praticamente non esistono più, le televisioni e le radio non sono più veicoli di promozione musicale ma solo vetrine dove mettere in mostra finti talenti costruiti a tavolino. Certo sarebbe un peccato se davvero smettesse di pubblicare dischi.
Per finire una domanda personale: quali sono le canzoni – o dischi degregoriani – a cui sei più legato?
La canzone Rimmel, ovviamente, una delle canzoni d’amore più intense mai scritte in Italia; la canzone Cardiologia, una delle sue più recenti, in cui l’amore viene descritto in termini di assoluta poesia e di grande realismo.
La canzone Santa Lucia, che esprime il suo senso della religiosità, altro elemento molto presente nella sua produzione. Un disco che amo molto al momento tra i suoi è "Buffalo Bill" del 1976, in cui c’è appunto Santa Lucia, che ho riscoperto andando a recuperarlo per questo lavoro e che trovo contenga alcune delle sue composizioni più belle, anche se molte di esse oggi quasi dimenticate da lui stesso.