La rimasterizzazione degli indimenticabili dischi dei Beatles offre l’occasione per ripercorrere l’opera dei Fab Four e osservarla, cogliendo la novità che rivoluzionò la musica di allora e che continua a influenzare quella del nostro tempo. In questa terza puntata dello speciale “Ritorno ad Abbey Road” Massimo Bernardini introduce i lettori de ilsussidiario.net all’ascolto di “Beatles For Sale” (1964).



Anno denso, incalzante, ansiogeno, il 1964 per i Beatles. Fra sala d’incisione, concerti in giro per l’Europa, promozione, il film Tutti per uno comprensivo di riprese e colonna sonora, la prima tournée negli Usa e la preparazione di un secondo album in uscita a Natale, è veramente una corsa a perdifiato.

D’altra parte i padrini dei quattro ragazzi, il manager Brian Epstein e il produttore George Martin – secondo un modello che nato con loro diventerà l’archetipo di ogni carriera pop internazionale – vogliono battere il ferro finché è caldo. Così la giostra corre sempre più veloce. Ma neanche i Beatles nel loro momento di grazia e sulle ali della più splendente giovinezza sono in grado di produrre nel giro di pochi mesi un secondo album tutto originale.



In autunno lavorano ai nuovi pezzi negli studi EMI fra un impegno e l’altro, ma alla fine sono costretti a ricorrere al loro repertorio di cover di giovane band alla moda. Così “Beatles For Sale”, che arriverà nei negozi per le vendite natalizie, su 14 pezzi contiene ben 6 cover di successi altrui, ed è ancora oggi un disco considerato secondario, con qualche perla ma sostanzialmente di routine.

E invece proprio attraverso le cover si apre uno spiraglio interessante sul loro carattere e il loro modo di far musica. Vi propongo tre confronti. Armatevi del disco dei Beatles – magari nella nuova versione rimasterizzata che fa sentire voci e chitarre come non era mai accaduto prima – e paragonateli ai video che qui vi propongo.



Il primo è il più facile e anche il più significativo: Rock and Roll Music.
Ascoltatela alla traccia 4 di Beatles for sale e notatene innanzitutto la fantastica, aggressiva, giovanilmente perentoria linea di canto di John. È un ragazzo di poco più di vent’anni che vuole essere al centro della scena e sa di esserne capace.

Questa invece è l’esecuzione classica, in un concerto del 1969, di Chuck Berry: afroamericano, uno dei padri fondatori del genere. A partire dagli stop che ne introducono il ritornello, è tutto un altro mondo.

Nessuna intenzione generazionale, nessuna rabbia, nessun abbandono selvaggio. È blues accelerato, quattro passi in compagnia degli amici per passare una serata simpatica. Il furore di Lennon sale su da qualche altro gorgo di inquietudine e fame di esistere.

Stesso gioco allo specchio con Mr. Moonlight , ballata dolciastra e chitarrosa. Ascoltate ancora John (che credo si raddoppi anche nella seconda voce) con la sua voglia di primeggiare, pur cambiando registro espressivo.

 

 

 

 

Poi passate al simpatico vecchietto di colore Willie (Piano Red) Perryman, che la esegue in versione originale nel video che segue.

 

 

 

Sembra di essere a una festa di campagna in un fienile: nessun bisogno di esagerare in melodrammaticità, nessuna retorica sentimentale, un suono scarno, ruvido, senza pretese.

Infine un ultimo confronto fra i Beatles e un altro grande del rock & roll afroamericano: Fats Domino.
Partite sempre da "Beatles for sale", correte alla traccia 7, e lasciatevi andare al “tiro” energetico di Kansas City/Hey-Hey-Hey.
Stavolta la voce leader è quella di Paul, che quando canta rock’n’roll – e sa farlo meravigliosamente – ha sempre un’aria vagamente parodistica, come se si caricasse di un’energia giovanile alla quale, da ragazzo “british” sostanzialmente risolto (a differenza di John), non crede se non per gioco.

 

 

 

Anche qui, dopo la cover beatlesiana, confrontatela col mondo poetico cui la vanno a prendere, in questo caso rappresentato dal placido e rotondo (in ogni senso) Fats Domino.

 

FATS DOMINO – KANSAS CITY/ HEY HEY HEY

 

 

Con Fats si va via leggeri e sorridenti: siamo a un party studentesco in un college americano di provincia tutto gonne lunghe svolazzanti e golfini a V. Nessuno urla, non serve. Persino l’assolo di chitarra si prende tutto il tempo che serve.
Insomma, alle prese coi classici del rock afroamericano, i quattro di Liverpool ci aggiungono un di più di rabbia e di ansia, lo trasformano in qualcosa di più isterico ed elettrizzante. Forse c’è dentro la loro presunzione di provinciali inglesi (non di Londra, ma di Liverpool) che hanno scoperto che quell’America che avevano fin lì mitizzato è alla loro portata. E che vedono i ragazzi davanti a loro agitarsi e abbandonarsi a un’istintività senza controllo, incapace alla fine di vero ascolto (ma di questo si accorgeranno solo fra un po’).

"Beatles For Sale" è certo parecchie altre cose, specie in quella fine anno del ’64 dominata, nell’immaginario canzonettistico nostrano, dall’indimenticabile Morandi di In ginocchio da te e Non son degno di te. Siamo indietro, siamo retrogradi? No, più che altro siamo l’Italia musicale del fai da te, che lancia in eurovisione Non ho l’età della Cinquetti, ma compra per tutta la primavera Una lacrima sul viso di Bobby Solo. Cantanti-ragazzini anche più giovani dei Beatles, che piacciono parecchio anche a mamma e papà. La voce di Lennon e McCartney è ancora dietro l’angolo, in una nicchia che scopriremo solo fra un po’.

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