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Ci si chiedeva: “Sgt. Pepper” è genio o follia pura?
Il disco è un lavoro discografico nato tra novembre ’66 e marzo ‘67. Mentre le due canzoni che hanno aperto la strada al progetto, Strawberry fields e Penny lane, escono come ’45 giri, McCartney propone al resto della band una meta-canzone, Sgt. Pepper, non solo come nuova melodia, ma come idea globale dell’album, provocando i suoi soci a trasformarsi in artisti-parodia di se stessi, indossando abiti di scena, maschere a colori sgargianti, artifizi da walking band vittoriana.
Il gioco diventa commedia e forse rappresentazione tragica, per chi riesce a notare tutti i riferimenti alla decadenza, alla vecchiaia, alla morte presenti nel disco (dalle canzoni, ai testi, alla celebre cover, probabilmente la più famosa della musica pop).
La canzone d’apertura, che titola l’ellepì, si apre con brusii di pubblico e con un andamento da opening-show e termina con la presentazione “dell’unico e solo Billy Shears”, cioè Ringo Starr, che subito dopo, in With a little help from my friends, si impegna a “non cantare stonato” regalando a Joe Cocker il brano che lo renderà indimenticabile a Woodstock.
Dopo 150 secondi di Ringo Starr, un organetto celestiale introduce una melodia delicata in cui si parla di fiori di plastica gialli e verdi e di cieli di marmellata (Lucy in the sky with diamonds) in un gioco mai chiarito di riferimenti all’Lsd, ad “Alice nel Paese delle meraviglie” e ai disegni di Julian Lennon (che furono il vero punto d’avvio della canzone scritta da suo padre John); subito dopo la Getting better di McCartney innalza un inno ottimista, mentre la voce in falsetto di Lennon gli controcanta “Non può certo andare peggio”.
Ma l’ottimismo ritorna nel disco del Sgt. Pepper, ancora con un pezzo di McCartney, Fixin a hole, che per qualcuno è un inno all’uso dell’eroina, visto che il titolo può anche essere letto “facendosi una dose”, mentre invece pare più un inno alla filosofia del “sto bene dove sto”.
Incalzante, il disco prosegue con un altro titolo che McCartney ha tratto da una notizia di un giornale: una ragazza scappata di casa.
Con la stessa felice vena documentaristica di Penny Lane, Paul fotografa i fatti in She’s leaving home, con la ragazzina che se ne va, i genitori che piangono, e la domanda finale che è un invito a tutti a riflettere “dove abbiamo sbagliato? Non sapevamo di sbagliare…”.
La pima parte di Sgt. Pepper si conclude con uno dei pezzi più sconclusionati e avanguardistici del prodotto, Being for the benefit of Mr. Kite, una pensata di Lennon suggerita da un vecchio manifesto circense. Per dare il senso dell’atmosfera, Lennon ha chiesto a Martin “il suono di un organo a canne vittoriano”.
E dove lo prendo, si è detto l’arrangiatore più famoso della storia. Per fortuna che nei nastri d’archivio della BBC esisteva qualcosa del genere: George li fa duplicare, torna in Abbey road, fa tagliare i nastri “a casaccio” e poi li fa rimontare “ancora a casaccio” per raggiungere quel senso di caos goliardico che era negli obiettivi.
Dopo due giorni di prove anche Mr. Kite vede la luce. Le prime canzoni di quello che diventerà il lato B dell’album vengono registrate in pochi giorni: Within you, without you è (finalmente) un titolo di George Harrison ricco di percussioni indiane, mentre When I’m sixty four è una canzone-swing di Paul la cui melodia è stata partorita al pianoforte prima che McCartney diventasse maggiorenne.
Poi Lovely Rita e Good morning Good Morning, che termina riallacciandosi alla ripresa di Sgt. Pepper.
Sembra che il disco sia finito e invece proprio qui arriva il punto più alto del disco, con A day in the life, una delle poche canzoni realmente partorite da Lennon e McCartney insieme.
Ancora una volta il punto d’avvio del pezzo sono notizie di giornale, un ricco ereditiero che si sfascia in automobile (esistente: era un rampollo della famiglia Guinness), le buche nell’asfalto delle strade del Lancashire; poi una sveglia suona (si dice che questo è un suono registrato casualmente ad Abbey road…) e Paul McCartney si ricorda di quando correva a prendere l’autobus “sul secondo piano”. Fatti. Cose quotidiane. Che senso ha tutto questo? C’è un senso in tutto questo?
Lennon, al termine della canzone, sussurra una frase di McCartney: “Mi piacerebbe accenderti…”, prima del momento di musica più insolito di tutto il disco. È un vortice orchestrale suonato senza partitura, con l’idea di un crescendo in volume e in estensione, con un orchestra di distinti maestri concertisti a cui viene (il 10 febbraio del 67) chiesto, da George Martin, di “improvvisare”. L’effetto finale è maestoso e “quasi” doloroso: c’è un senso di tragedia definitiva, di deflagrazione nucleare, di climax apocalittico, di fine del mondo.
E forse – in effetti – è questo senso di fine di tutto, quello che voleva qui essere suggerito, al termine del gioco del sergente Pepe e della sua band di cuori solitari…
Sgt Pepper chiude qui, sulla lunghissima coda monotonica di A day in the life, inquietante, profetica, inserita “dopo” il reprise della title track, quasi che questa canzone fosse definitoria ben oltre il gioco dei travestimenti bandistici.
Canzoni, profezie, esperimenti, psichedelica, suggestioni lisergiche, invenzioni artistico-giornalistiche. Mai nessuno, nella musica pop, ha creato un prodotto simile prima. George Martin dirà che per la prima volta dei giovani musicisti erano riusciti a creare un’opera d’arte, non solo un accozzaglia di suoni divertenti. Siamo nell’aprile del ’67. Il disco viene pubblicato il 1 giugno.
Oggi, anno 2009, Sgt. Pepper è ancora ugualmente e radicalmente importante, rivoluzionario, folle, suggestivo, stimolante. Una genialata realizzata su quattro misere piste di registrazione.
Vale la pena citare ancora il libro fondamentale libro di Mark Hertsgaard: «Se, come dirà qualche anno dopo George Martin, "Sgt. Pepper" non fu l’album migliore dal punto di vista musicale, lo fu certamente da quello artistico e storico. Metteva in luce tutte le qualità che avevano resi i Bealtes i più importanti musicisti della loro epoca: creatività, intelligenza, senso dell’umorismo, coraggio, inventiva, valore, versatilità, accessibilità e naturalmente grandissima abilità compositiva e senso dell’emblematico del messaggio artistico. Niente, dopo "Sgt Pepper", restò uguale; è uno degli avvenimenti culturali del XX secolo. Nel verso di chiusura c’è l’emblematico messaggio che sintetizza tutto il disco: John Lennon cantava con stanca dolcezza "come mi piacerebbe accenderti…" Ma la verità è che lui e i suoi amici c’erano già riusciti».
Oggi riascoltiamo ancora questo immenso album (ora digitalizzato) senza stancarci, ancora incantati sul suono della sveglia di A day in the life o sull’attacco della voce di Ringo Star che intona “Try not to sing out of key”. Genio o follia? O entrambe?
Il 25 giugno del 67 i Beatles si esibirono nel primo collegamento in mondovisione della storia della tivù. 350 milioni di persone in tutto il pianeta poterono assistere ad una live session dei quattro di Liverpool mentre interpretavano una loro nuovissima canzone, All you need is love, scritta pochi giorni prima da Lennon.
La canzone iniziava con uno dei tanti colpi di genio (o follia) di quel periodo, vale a dire con l’attacco della Marsigliese, l’inno francese. E il testo diceva “nulla di quello che puoi fare è impossibile”. In perfetto stile Sgt. Pepper.