Tutto bianco. Niente titolo. Il nome della band si leggeva a malapena, più che altro si sentiva “alla Braille”, scritto com’era in rilievo. Novembre 1968 – non un anno qualsiasi – esce “The Beatles”, quello che per tutti, per la storia della musica contemporanea, diventerà “The White Album”.



30 brani, chiamarle “canzoni” non sarebbe adeguato. Mi ricordo quando l’andai a comprare, da bravo patito dei Beatles che ero (e che son rimasto). Avevo poco piu’ di tredici anni, ma campavo già di quella musica lì.
Non potevo sapere niente della confusione, dei risentimenti, dei dissapori che cominciavano a dominar la scena e che avevano accompagnato quei sei mesi di lavoro in studio dei quattro ragazzi di Liverpool.



Ragazzi sì, ancora lo erano. Se ci pensate i più vecchi – Lennon e Starr – avevano ventott’anni, e a quel tempo I Beatles avevano scritto e registrato già tanta di quella roba…

Che cosa c’è di speciale nel “White Album”? Cosa lo rende una delle pietre miliari della musica… già, di che musica stiamo parlando? Che musica facevano I Beatles arrivati a questo punto?

La cosa più straordinaria di questo lavoro sta proprio nella ricchezza e nella varietà del materiale che ci troviamo. Tutta la musica popolare affacciatasi su questa terra è in qualche modo presente. Tutta. Sì, perchè I Beatles di musica ne ascoltavano tanta, la facevano propria e la ruminavano in qualcosa di nuovo, affascinante e assolutamente unico. E tuttavia, con tutta questa ricchezza e varietà, il “White Album” è un fantastico “unicum”, come se ogni pezzo fosse il capitolo di un libro.



Ascoltate questi trenta brani (30! Chi è mai stato capace di mettere insieme trenta belle cose nuove?) e ditemi se qualcuno somiglia a un altro. Ditemi se qualcuna delle canzoni dei Beatles di qualsiasi disco somiglia a un altra, se potreste prenderne impunemente una da un LP e piazzarla in un altro senza che nessuno ci faccia caso.

 

 

Con tutto il rispetto per Stones, U2, Dave Matthews Band, e anche Mr. Bob Dylan, questo scherzetto può funzionare con le cose loro, ma con I Beatles no.
Il “Doppio Bianco” è come l’enciclopedia del dono della creatività dei Beatles, ed à anche la summa dell’abilità di George Martin di arrangiare e orchestrare senza mai ripetersi, stufarsi e stufarci.

Ebbene in verità tutta questa ricchezza e varietà sono anche i fattori che resero questo lavoro inviso a tanti. Si narra che ben pochi dei pezzi registrati in quei mesi abbiano visto la luce alla presenza di tutti e quattro I Beatles. A un certo punto persino il paziente Ringo Starr perse le staffe e piantò tutti in asso. E poi in giro c’era già Yoko Ono. Come sempre sono Lennon & McCartney gli autori di quasi tutto. Harrison riusci a infilarci 4 cose (su tutte spicca While My Guitar Gently Weeps con quello struggente assolo di Clapton), Starr una cosina semplice e simpatica, Don’t Pass Me By, impreziosita e resa speciale da quel violino, quel “country fiddle” che svolazza dall’inizio alla fine.

 

 

 

John e Paul avevano messo insieme una enorme quantità di materiale durante quella strampalata primavera trascorsa in India con il funambolico Maharashi. Meditando trascendentalmente o meno, quei due non potevano fare a meno di comporre musica e in quei mesi ne misero insieme proprio tanta. Ormai però ognuno stava prendendo la sua strada ed è molto facile capire “dove sia John” e “dove sia Paul”, e non solo perchè in linea di massima ognuno canta le sue creature.

McCartney (Ob-La-Di, Ob-La-Da, Martha My Dear, Blackbird, Rocky Raccoon, I Will, Mother Nature’s Son, Honey Pie…) è sempre stato più melodico anche quando rockeggia come in Back in USSR o nella trasgressiva Why Don’t We Do It In the Road?.

John (Glass Onion, I’m So Tired, Everybody’s Got Something to Hide…, Sexy Sadie Revolution 1, Cry Baby Cry …) sempre più ruvido, aspro, dolente, sofferto anche nelle sue cose più dolci, come Dear Prudence o la bellissima e commovente Julia.

 

 

 

 

A quei tempi gli strumenti si suonavano davvero, non c’erano quei sintetizzatori spaziali di oggi che ti riproducono fedelmente dal basso tuba alla viola, dal putipù al respiro della lumaca.
Provate ad ascoltare la ricchezza – viva e mai ridondante – degli arrangiamenti vocali e strumentali di ciascuno di questi trenta brani.

Gli arrangiamenti sono come il colore di una storia, l’intonazione che si dà al racconto, la sottolineatura che esalta dei particolari… non basta il buon gusto per farlo, ci vogliono curiosità, intelligenza, fantasia, creatività. Questa è la “pasta” di cui è fatto il "White Album" e per questo, fatemelo dire, di meglio …non ce n’è!

(Riro Maniscalco)

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