Dal 1974 il Premio Tenco tributa i gusti onori a chi nella canzone non mette solo lustrini, ma anche (tentativamente) qualità. Quest’anno il premio per il miglior disco dell’anno è andato, alcuni giorni fa a un completo outsider, Max Manfredi.
Max chi, diranno i più? Non è un ragazzino, il genovese Manfredi, bensì un musicista classe ’56, con cinque album alle spalle, che con Luna persa è riuscito finalmente a centrare un importante riconoscimento, merito di una scrittura importante, figlia di quella canzone che s’abbevera alle lezioni di De Andrè e Conte. Disco intenso e pastoso, con suoni che pescano nel folk, nel Mediterraneo e nelle influenze francesi, Luna persa è stato premiato a grande maggioranza dai giurati (per lo più giornalisti) e sta meritando a Max una stagione di successi nei concerti in teatro in giro per la Penisola.
Ci siamo fatti raccontare dallo stesso Manfredi il gusto per questa piccola-grande vittoria e ne abbiamo approfittato per dialogare sullo stato di salute della canzone italiana.
Manfredi, pochi giorni fa la vittoria al Premio Tenco: che emozioni ti ha dato? Che senso ha questa affermazione per la tua storia artistica?
Inutile far finta di niente: la soddisfazione c’è ed è tanta. Pochi giorni fa ho fatto un concerto a Pisa, dentro a un convento francescano: era pieno zeppo. Che soddisfazione! Un certo tipo di successo ti conferma che stai dicendo cose belle, capite, apprezzate. Il Tenco, poi, è più che altro un inizio augurale. Non lo vedo come coronamento, ma come riconoscimento presente. Come dire, “c’è Max, guarda un po’, ci è piaciuto molto il tuo disco, vediamo cosa ci proporrai dopo…”.
Non è la prima volta per te al Tenco…
Ci sono andato un millennio fa: era l’84 e mi aveva invitato proprio Amilcare Rambaldi, il fondatore del Tenco, come esordiente. Poi nel ’90 ho vinto il premio per l’opera prima, “Le parole del gatto”. Insomma non sono uno nuovo da quelle parti.
Ti ha sorpreso vincere con Luna persa?
Diciamo di no. Semmai mi ha piacevolmente stupito la quantità dei consensi ricevuti.
Domandina, vediamo se c’è una risposta: c’è una cifra comune nelle tue canzoni, un punto di unità artistica?
E’ difficile per me vederlo, forse lo può fare più agevolmente chi vede da fuori e ci vede dei modi e dei temi comuni. Senza dubbio sono uno che non butta via le sue intuizioni. Vedi, sono convinto che il cantautore è come il maiale, non si butta via niente. Ora, ad esempio, sto lavorando un pezzo che era una mia vecchia canzone, roba di venti anni fa: ho cambiato la musica, modificato le parole, aggiornato le emozioni e sto cercando di riportare nel presente qualcosa che ha attraversato il cambiamento delle mie stagioni.
In ogni caso, di sicuro mi è difficile fare canzoni d’occasione: le mie canzoni raccontano sempre avvenimenti e storie.
Hai toccato un punto sensibile: una cosa che mi colpisce nelle tue canzoni – da L’ora del dilettante a La fiera della Maddalena – è un certo modo di raccontare storie, personaggi. Ti senti un cantastorie?
Purtroppo in Italia oggi non si raccontano più storie. Io cerco di farlo, anche se più con lo stile di un racconto per immagini. Purtroppo oggi nemmeno i film sono in grado di raccontare, come se i fatti non ci fossero più, ma sono il prodotto di un montaggio più o meno riuscito. Ma per tornare alla tua domanda io non mi sento tanto un cantastorie, quanto un narratore di storie frammentate, di fotografie, di graffiti.
Resto su questo tema: ti pare che in Italia esista ancora qualcuno che racconta storie in musica?
Forse non tanto. Il cantastorie più vicino a noi è Francesco Guccini, uno che si mette lì, scrive La Locomotiva e tu la segui proprio come fosse un racconto. Questa per tanti decenni è stata anche la forza della canzone popolare, che era un composto di valori religiosi, civili, umani, famigliari che confluivano in narrazioni e melodia. Tutto questo ha avuto grandi influssi sull’essere cantautore.
Credo che finché è esistita una cultura sanamente popolare c’è stato un certo travaso tra realtà e canzoni, poi un certo decadimento e il trionfo di bassa cultura mediatica ha mandato tutto in pensione. Non mi sorprende, ma è finita così.
Ma la canzone italiana, come sta?
Ti darò una risposta forse insolita. Come fenomeno reale sta bene, c’è grande offerta e lo si vede anche nelle classifiche. Però la sua visibilità è un po’ bassa e monocorde, con sempre le stesse facce e gli stessi temi. Ne consegue che bisogna andarsi a cercare, come quando si cercano i funghi nei boschi, chi dice qualcosa.
E questa ricerca da buoni frutti? O meglio: si trovano buoni “funghi”?
Sarò sincero: frequento molti concorsi come giurato e ricevo tante registrazioni più o meno artigianali e devo dire che la canzone d’autore non è mai stata così viva. Il suo problema è solo nel rapporto con l’esposizione mediatica. Ma nel tempo tutto può accadere. Non vivremo certo sempre di musica leggerina.
E Max Manfredi che farà nei prossimi tempi?
Ho vinto il Tenco e quindi in questo momento mi do un consiglio: è il momento di un salto di qualità. Piccoli teatri d’Italia, qualche passaggio televisivo intelligente, qualche segno di visibilità nuova. Direi che a cinquantatré anni posso permettermelo…