Ho fatto qualche Sanremo da giornalista, come tanti. Ho visto e vissuto momenti interessanti all’Ariston: l’Enzo Jannacci di Guarda la fotografia e di Se me lo dicevi prima. Ray Charles che nel ’90 canta una canzone di Toto Cutugno, Good love gone bad.
Nello stesso anno Dee Bridgewater traformò Dio delle città dei Pooh in Sweet angel of night, una delle più belle cose che si siano mai sentite in Riviera (date un occhio al video e applaudite).
Ricordo con piacere anche Giorgia che vince con Come saprei, Ron con Il mondo avrà una grande anima e Mia Martini con Almeno tu nell’universo. Ricordo anche un troppo in fretta dimenticato Alessandro Bono, la monumentalità teatrale di Renato Zero e l’esordio convincente di Paola Turci o di Andrea Mirò, poi moglie di Enrico Ruggeri.
Mi sono pure beccato la piena dell’epoca Minghi e del “minghismo,” che sembra cosa lontana, ma tanto lontana non è.
Già negli anni di Baudo e Fuscagni, Aragozzini e Ravera, Maffucci e Beppe Vessicchio, la scommessa era: sarà o non sarà l’ultima edizione? L’audience riuscirà a stritolare il canzonesauro rivierasco? E così ogni anno. Così ogni conferenza stampa.
Quando frequentavo il Festival vincevano Morandi-Ruggeri-Tozzi, Cocciante, i Matia Bazar, i Pooh. C’era Masini che comunque faceva il suo bell’effetto, con un’estensione vocale galattica. E già l’audience era il punto di riferimento, lo share: quest’anno un punto i più, l’altr’anno un punto in meno. E si discuteva anche sulle vincite “programmate”, non tanto perché ci fossero manovrone in atto, quanto perché i vincitori appartenevano “per natura” alle case discografiche più importanti e – fatti due conti – si poteva intuire chi “per natura” avrebbe vinto.
C’erano anche gli scontri per l’area politica dell’organizzatore: negli anni del dominio democristiano in Rai erano lotte interne alla Balena bianca. Eppure, lo ripeto, già allora il tema degli scommettitori era: quanto dura ancora il Festival?
Se le canzoni non contano più, conta solo lo spettacolo. Eppure erano anni di grandi canzoni, lo diciamo adesso, col senno di poi, perché in presa diretta si continuava a dire «era meglio prima, quando c’era il Vasco di Vita spericolata o quando ci passavano Ramazzotti e Zucchero, o quando c’era Celentano o Modugno». Insomma, tutta questa solfa per dire: è esattamente come oggi (o quasi).
Son passati alcuni anni e Sanremo è ancora in Riviera e fa miracoli. In scena (e in video) una manciata di canzoni mediocri, qualche piccolo spunto interessante, qualcosa che rimarrà e passerà in radio, tanti giovani interessanti (come diceva la notte scorsa Carlo Pastori durante la diretta web proposta da ilsussidiario.net).
Il miracolo di Sanremo è che come ogni anno (ma più degli anni scorsi) rivitalizzerà un po’ il settore musicale nostrano. Già, perché tutto il mondo delle sette note si mette in moto grazie a Sanremo e per mezzo di Sanremo: le radio, le feste di piazza, i promoter, le serate, i tour promozionali, gli organizzatori, i festival estivi, i turnisti, le feste del patrono, le discoteche, le feste dell’Unità (non so se esistono ancora…).
Pure gli Afterhours oggi sono più conosciuti di ieri: anche le nonne sanno ora che si tratta di una band – pardon – di un complesso musicale.
Al di là del “dato” di meccanismo musicale, è il dato televisivo a colpire, perché le cifre di questi giorni la dicono lunga su chi sperava in un decesso del Festivalone: faranno prima a morire i suoi becchini.
Sanremo fa oltre 14milioni di spettatori. Non è sorprendente? A fronte di queste cifrette non si può sperare che finisca il Festival, sono gli stessi dati della nazionale di calcio. Secondo me è comunque un successo non particolarmente sorprendente: se porti in tivù Bonolis in un periodo di crisi e risparmi (a Roma stazione Termini si trova sempre un taxi, anche in giornate di pioggia: vorrà pur dire qualcosa….), con annessa vagonata di cantanti e vallette, mettendoci dentro di tutto un po’ da Benigni e de André, dalle polemiche omosex al coro spirituale, è chiaro che fai il pienone. Mi stupisce chi si stupisce.
Cosa significa questo successo “numerico” di Sanremo? Che gran parte del Paese sta lì a godersi una rappresentazione di sé che non è diversa da quella che emerge dai quotidiani, dai Grandi fratelli, dalle De Filippi, dai Tg delle reti monopoliste, un misto di scandalismo e voyeurismo in cui il posizionamento del “politicamente corretto” si è radicalmente spostato rispetto a un paio di decenni fa.
Negli anni andati in tivù c’erano Totò e Peppino, c’era Walter Chiari e Carlo Campanini, c’erano Jannacci e Gaber, oggi ci sono Bonolis e Laurenti che trasformano tutto in uno spot Lavazza. Oggi l’importante è che sia tutto tiepido, che nulla disturbi, che il purè catodico non offra altri motivi per preoccuparsi (c’è già la crisi mondiale e mille altre crisi più vicine). Il Festival è lì, in scena.
Una volta era solo sul palco del Casinò, poi l’hanno sdoganato ed è andato in tivù: da allora è come una docu-fiction dell’Italia quotidiana. Nemmeno può essere accusato di “colpe non sue”. Il Festival, infatti, fotografa.
È il soggetto che viene fotografato ad essere inquietante e forse povero. Ma davvero l’Italia è così? Ma davvero siamo così? Oppure è chi “imbraccia” la telecamera a volerci definire in un certo modo?