Sono trascorsi quarant’anni dal 1969, anno dell’uomo sulla Luna e del festival di Woodstock.
A metà agosto di quell’anno oltre 500.000 americani furono spettatori di una kermesse musicale senza precedenti, dando vita all’evento rock più celebre della storia.
Un evento spesso osannato per i suoi significati generazionali o “rivoluzionari”, ma di cui, forse, nessuno ha raccontato le “storie umane”.
Ecco, senza miti o riverenze, la storia di quel che è successo prima, durante e dopo, a Woodstock e alle persone che ne sono state protagoniste…



A New York in quel marzo 1969 era nata la società, ma il festival era ancora lontanissimo. Una sola cosa era chiara ai quattro: doveva essere l’evento rock più importante d’America. C’erano già stati i festival di Monterey e Miami, già si sapeva che ad Atlanta, la perla della Georgia, si stava organizzando per luglio ’69 un happening musicale vastissimo, ma Woodstock doveva superarli tutti. «Un week end di musica per 100.000, forse 150.000 persone» dicevano negli ambienti discografici Lang e Kornfield. E per raggiungere quello scopo si erano organizzati e si stavano muovendo i quattro della Woodstock ventures, anche se le differenze di vedute e di interessi tra di loro erano già ben chiare, inevitabili tra due ragazzi ricchissimi e cresciuti nei college e due beatnik musicofili. Ognuno dei quattro aveva comunque il suo compito più o meno definito: Rosenman era l’addetto ai rapporti con i finanziatori e gestiva i conti dell’azienda, Roberts se la vedeva con le autorità e le autorizzazioni, Lang si occupava dell’organizzazione e della logistica (insieme al suo socio Stan Goldstein), Kornfield della direzione artistica, forte dei suoi rapporti in tutti i giri musicali del nordamerica.



Per mettere insieme un festival servono molte cose, in primis i musicisti che ci suonano. Tante erano le aspettative, ma poche le certezze. La scena californiana era la più ricca ed aveva avuto nel dopo Monterey un successo incontenibile, per cui qualsiasi evento puntava ad assicurarsi la presenza di Jimi Hendrix, Jefferson Airplane e Janis Joplin, senza dimenticare la fama che continuava ad accompagnare ogni gesto e ogni canzone di Bob Dylan, mentre a New York i folksinger del Village avevano sempre grosso seguito, con Joan Baez in testa; dall’Inghilterra, poi, ognuno avrebbe voluto Beatles, Stones, Clapton e gli Who, ma i nomi importanti d’oltre Oceano non erano così facili da ottenere. «Per far nascere il Festival», ricorderà Rosenman, «occorreva credibilità. Per ottenere credibilità ci servivano i contratti. Per ottenere contratti e credibilità servivano date e luoghi certi, che ancora non esistevano».



Insomma, per ottenere tutto occorrevano idee più chiare. Idee comunicabili: cosa vogliamo fare – si chiedono ad un certo punto Kornfield e soci – solo un’esibizione rock? I quattro verso la fine di marzo accettano l’idea di Michael Lang: il festival si sarebbe chiamato An Aquarian exposition. Il richiamo ad “Hair”, il musical di James Rado, Jerome Ragni e Galt MacDermot, manifesto della cultura hippy, era evidente. Artie ne era anche soddisfatto perché proprio l’età dell’Aquario era il suo pallino. «Avevamo da costruire una nuova nazione e quelle erano le basi».
Dopo il Festival Abbie Hoffman, capostipite di tutti gli hippy e controverso profeta dell’America rivoluzionaria e lisergica, nel suo celebre libro “Woodstock Nation: A Talk-Rock Album” avrà a dire «proprio sull’idea dell’Acquario poteva crescere e fiorire una coscienza nazionale senza punti di contatto con quella precedente, ormai corrotta e defunta. Una nuova nazione, la Woodstock nation». La stessa idea su cui David Crosby scrive Wooden Ships, sogno di fuga sul mare verso continenti finalmente liberi e puri. Sulla stessa idea – ma con più politica dentro – i Jefferson Airplane negli stessi mesi incidono Volunteers, «Noi siamo i volontari per la rivoluzione…». Ma l’Acquario non basta: tutti i quattro organizzatori del Festival volevano fortemente la parola “pace” dentro il festival, perché doveva essere chiaro che nel luogo prescelto si sarebbe respirata un’altra atmosfera da quella del Delta del Mekong. Il festival viene battezzato definitivamente: “3 giorni di pace e musica: an aquarian exposition”.

Quando Ira Arnold, addetto alle pubbliche relazioni della Woodstock venture, telefona ad Arnold Skolnick per comunicargli la scelta dello slogan, l’artista si mette in moto. Arnold era un illustratore. A lui era stato chiesto il logo del festival. Lavorava in ambito pubblicitario e già esponeva fotografie e quadri al Greenvich. Oggi vive a Chesterfield, nel Massachussets, alterna l’attività di fotografo e quella di critico d’arte (ha pubblicato libri su John Singer Sargent e Winslow Homer) e dirige la “Chameleon book”, importante casa editrice specializzata in libri d’arte americana. Arnold prese una colomba che già aveva disegnato, la tagliò da un cartone pre-esistente e la depose su una tavola su cui disegnò stilizzata una chitarra. Dopo due giorni dal “commitment” il logo era fatto.
La prima comunicazione del festival uscì nei primi giorni di aprile sul Village voice, il settimanale del Greenwich village di New York e sul Rolling stones, il magazine fondato a San Francisco nel ’67 da Jann Wenner e Ralph Gleason che nel giro di due anni era diventato il giornale ufficiale della controcultura rock.
L’avventura di Woodstock aveva fatto un sostanziale passo avanti.

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