«È una storia curiosa: più invecchiamo e più perdiamo quel senso di fiducia divina che è patrimonio della gioventù, e gli attimi in cui crediamo di aver preso la decisione giusta sono sempre più rari… Oggi sono raramente soddisfatto di me stesso e quasi mai ho l’impressione che il mio operato abbia successo: porto il peso del raccolto del rimpianto. Ma c’è un altro peso, ancor più gravoso, che mi era sconosciuto in gioventù: il peso di non avere una patria».



Sono queste le parole di Sergej Rachmaninov con le quali si alza il sipario sull’affascinante film-documentario che Tony Palmer ha dedicato al maestro russo, emblematicamente intitolato The Harvest of Sorrow, “Il raccolto del rimpianto” (Dvd-Video Warner): un progetto di alto spessore culturale, sicuramente, ma innanzitutto un atto d’amore incondizionato, con cui il regista inglese ha inteso celebrare la statura assoluta dell’artista alla luce della sua vicenda umana, ripercorsa attraverso lettere, interviste, scritti autobiografici e immagini di repertorio, il tutto contrappuntato dall’esecuzione di alcune tra le opere più significative e la testimonianza appassionata di un “Virgilio” d’eccezione come il direttore Valery Gergiev.



Palmer ha sempre avuto il dono di capire la musica nel profondo e di saperla raccontare in modo originale; sin da quando, cinepresa alla mano, negli anni Sessanta inseguiva sul palco e in sala d’incisione artisti come Beatles e Cream, Jimi Hendrix e Frank Zappa; oggi questa spiccata vocazione lo ha portato a diventare uno dei più quotati e poliedrici registi del teatro d’opera e del panorama classico in generale, grazie a una sensibilità e a una profondità di pensiero che rappresentano la sintesi del suo geniale talento.

La storia pubblica di Rachmaninov così come viene ricostruita nella pellicola è quella di un grande protagonista della vita musicale del suo tempo, che ha girato il mondo in lungo e in largo nella molteplice veste di compositore, virtuoso pianista e direttore d’orchestra; le vicende private riguardano invece quelle di un uomo profondamente legato alla sua terra, la Russia, che però si è visto costretto ad abbandonare nel 1917 in seguito alla Rivoluzione bolscevica, per non farvi mai più ritorno.



Rachmaninov è nato nel 1873 a Oneg, nei pressi di Novgorod, e ha studiato tra San Pietroburgo (sotto la protezione del grande Ciaikovskij) e Mosca; al trauma causato dal distacco dall’amata tenuta di Ivanovka ha fatto seguito l’abbandono, altrettanto doloroso, di Villa Senar, la residenza elvetica sulle sponde del Lago di Ginevra da cui il musicista è dovuto fuggire a causa dell’imminente scoppio della Seconda Guerra Mondiale, per poi trovare il suo ultimo e definitivo approdo negli Stati Uniti, nazione di cui ha preso la cittadinanza e dove è morto nel 1943 (a Beverly Hills, in California).

L’allontanamento forzato dalla madre-patria ha generato una ferita rimasta aperta lungo tutta la sua esistenza, che né i milionari contratti discografici e concertistici, né i tentativi quasi ossessivi di ricreare nella lussuosa dimora americana l’atmosfera e l’ambiente russo – con servitori, cibi, mobili e frequentando quasi esclusivamente il giro degli émigré – sono mai riusciti a rimarginare.

«Un fantasma che girovaga senza sosta per il mondo», si definisce a un certo punto del film il musicista; un viandante di schubertiana memoria, il cui perenne vagabondare non ha fatto altro che aumentare il senso di disagio che solo l’amore della sua famiglia e il conforto della sua musica hanno saputo alleviare: «Comporre è una parte essenziale di me, come respirare e mangiare; è l’espressione dei miei pensieri più profondi e il mio costante bisogno di comporre è difatti la mia necessità più recondita di dare un suono a quei pensieri. Scrivo quello che sento; la mia musica è pertanto un esito del mio temperamento. E per questo, ovunque io viva, è musica russa».

Se si dovesse chiedere a un appassionato di musica classica quali opere conosca di Rachmaninov è molto facile che la risposta riguardi il Secondo e forse il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra, una manciata di Preludi (su tutti quello in do diesis minore, il celeberrimo Op. 3 n. 2), magari qualche movimento delle sue tre Sinfonie; opere tutte riconducibili nell’alveo di una velata vena compositiva di stampo tardo-romantico, mentre in Europa già andavano in scena i balletti di Stravinskij o Schönberg azzardava i primi esperimenti dodecafonici, dove la melodia, quando esisteva, veniva scomposta, analizzata quasi matematicamente: «Questo nuovo genere di musica mi sembra provenire non dal cuore ma dalla testa e i nuovi compositori esercitano più l’intelletto della sensibilità: sono incapaci di far sì che le loro opere esultino…».

Grandi evoluzioni e rivoluzioni non hanno evidentemente mai interessato più di tanto il maestro “vagabondo”, che ha continuato a muoversi decisamente controcorrente e a chiamarsi sostanzialmente fuori dal grande fermento innovativo che andava scuotendo il mondo artistico occidentale, forte di un’incrollabile convinzione: «La musica deve esprimere il paese di nascita del compositore, le sue pene amorose, la sua religiosità, i libri che hanno destato il suo interesse, i dipinti che ha amato: deve essere il risultato totale delle sue esperienze di vita… La musica nasce dal cuore e si rivolge al cuore. È amore. Sorella della musica è la poesia, e madre la sofferenza».

Insomma, per Rachmaninov la musica nasce ultimamente dal cuore e al cuore parla: ai suoi affetti, alle sue domande, ai suoi tormenti, alla sua sete d’infinito. La musica, in una parola, è «amore», e se rimane sorella della poesia, è pur sempre figlia di quella sofferenza che per lui è stata compagna fedele lungo tutto il suo peregrinare, sulla terra e nello spirito. E questo imperidibile Dvd di Palmer – caldamente raccomandato a chiunque ami la musica e desideri fare l’esperienza di un autentico incontro con uno dei più grandi maestri della storia – si chiude idealmente con la lunga lettera indirizzata alle adorate figlie Irina e Tatiana, nella quale, già gravemente ammalato, Rachmaninov scriveva: «Quale altra funzione può mai avere la musica se non risanarci? Come sapete, il titolo di una delle mie prime canzoni pubblicate era Il raccolto del rimpianto: “Venti freddi spazzavano i campi distruggendo il prato dei miei sogni, disseminando qua e là i semi maturi che domani toccheranno il suolo per morire o germogliare i semi soffocanti e benedire il raccolto del mio rimpianto…”. Ecco, forse ora possiamo ritrovarci nel raccolto e sanare i nostri rimpianti».