Cristina Muti, consorte del maestro e superwoman della cultura, ieri è sbarcata a Roma.
Missione possibile, lanciare il “Ravenna Festival 2009”. Emozionata, onorata, la romagnola di ferro sente l’effetto Collegio Romano, dal fondatore sant’Ignazio di Loyola fino al suo attuale inquilino, il ministro della cultura Bondi, che peraltro già l’adora. Ma il suo imbarazzo sotto le austere volte della Sala del Consiglio dura un sospiro, perché al cuore di tutto c’è la Bosnia.
Il Ravenna Festival per celebrare i suoi vent’anni torna a Sarajevo, città ferita e forse già dimenticata, ma non dai loro viaggi. “Dell’amicizia” li hanno chiamati, benedetti per 12 anni da Dio e dagli sponsor (che Cristina con somma finezza ringrazia anche adesso che han chiuso la borsa, per via della crisi). Stavolta viene in aiuto il ministro Bondi, ma anche le coproduzioni con Salisburgo e L’Opera di Parigi, con uno sguardo già verso Madrid.
Parla arabo quest’anno il festival: «…la ilaha illa…, non c’è altro Dio che Dio, quando ti sento arrivare il mio cuore danza», verso di Ad-din Rumi, poeta Sufi (setta da sempre perseguitata dagli integralisti musulmani) e Cristina ti spiega che anche Massimo Cacciari – non il sindaco di Venezia ma il “suo” curatore di “Voci nella preghiera” – è stato un giovane scout. 
Con lui la star dello spirito Suor Marie, dal Libano maronita, poi naturalmente c’è la Cherubini, l’orchestra giovanile del maestro Muti, c’è il Maggio… e persino Bruno Vespa in fugace rappresentanza della Rai, che farà le riprese a Sarajevo come 12 anni fa.
Vent’anni di musica, di passione per la bellezza, Muti ce li spiega attraverso il suo amore per la Napoli musicale del 700, stavolta firmata Niccolò Jommelli. Ti spiega il Demofonte di Metastasio: 73 musicisti, 73 l’hanno musicato, Mozart compreso: anzi Muti racconta come senza il poeta sublime degli Asburgo e il musico Jommelli, due italiani, il genio salisburghese forse non sarebbe volato dove è volato.
“Strepitoso” è l’aggettivo che usa e lo allarga a Paisiello, e gli va data retta perché il maestro ha sudato sulle carte, sugli antichi pentagrammi, e se dice strepitoso avrà le sue ragioni.
Il sovrintendente di Salisburgo Flinn fa il napoletano entusiasta anche lui, il parigino Mortier dell’Opera (che confessa la sua gioventù romana dai gesuiti) si aggiunge al coro: fa impressione che questo crocevia di cultura europea sia l’umile, oggi depistata Ravenna. Se la famiglia Muti non l’avesse eletta a suo appartato buon retiro dal vasto mondo (va ricordato che Muti oggi è direttore Stabile a Chicago) e non l’amasse come la ama, nulla sarebbe nato. Ma mica è una banda di esangui esteti, questa del Ravenna Festival: se tornano a Sarajevo è perché hanno la pretesa che la bellezza possa guarire le ferite del mondo. Così portano a Roma la nuova classe dirigente bosniaca, e Cristina ricorda la drammatica lettera degli artisti bosniaci di 12 anni fa, e la risposta calda che mobiltò i ravennati inventando il primo viaggio dell’amicizia di Muti a Sarajevo.
Il 13 luglio il Maestro torna in città, conferma l’amicizia, conferma il sostegno. I bosniaci in vacanze romane, ministri e autorità della città, ricordano quell’Eroica di Beethoven suonata da musicisti bosniaci e italiani a macerie ancora fumanti, e con commozione affermano che il miracolo si ripeterà “nella settimana del loro lutto”, quella che ricorda il massacro etnico di Sebrenica, e che magari la Rai darà una mano, con le sue immagini, a rilanciare il turismo.
In tempi di crisi fa impressione, questo mondo musicale europeo così intrecciato e lanciato nell’intrapresa. Muti però allarga, fa capire che l’arte è cultura, identità, cuore, ed è su questo terreno che i popoli, le religioni, le etnie, le persone insomma, si incontrano in pace. Fa esempi emozionanti, ricorda il vento che si ferma davanti alle mura di Gerusalemme, ricorda nel silenzio il lamento di un cane zittito misteriosamente dai violoncelli dell’Offertorio del Requiem verdiano, o il muezzin che si mette di mezzo durante il Mefistofele di Boito, o la lunga travestata notturna fra i campi minati di Sarajevo. È come se Muti dicesse: la realtà, la vita, la cultura degli uomini non disturbano la grande musica, la rendono autentica, la strappano via da ogni formalismo.
Bondi conferma e si emoziona, mette a servizio delle ambizioni internazionali ravvennati la sua “Casa della cultura”, e da poeta della politica ne parla come di qualcosa «che ci mette in ricerca del senso della vita». 
«Quello che facciamo – conclude – è sempre poco rispetto a quello che fate voi». Forse ci difetta la memoria, ma un ministro che parla così a degli artisti non ce lo ricordiamo. Pura poesia della sussidiarietà.



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