Non riusciamo a toglierci dalla memoria quel pianoforte muto e solitario, sul palco del Teatro di Vienna. Sembrava un aratro abbandonato nei campi. Alfred Brendel aveva da poco terminato il suo ultimo concerto. Promessa compiuta: un vero addio.
Tutti conoscono bene quel pianista dalle mille anime e dal sangue misto, nato nella Moravia del Nord da famiglia austriaca tedesca slava italiana, uomo dai passi di formica e orme da rinoceronte.
Non ha mai avuto fretta, fin dalla rivelazione, nel 1949, diciottenne, al Concorso Busoni, un modesto terzo premio. I primi piccoli contratti discografici, il debutto londinese alla Queen Elisabeth Hall, un’agenda che si riempie poco alla volta, pochi autori e loro opere ritenute minori, approfonditi con uno scavo inarrestabile. «Ho suonato opere con cui mi sembrava si potesse trascorrere una vita intera», si è giustificato. «Ritornare su quei capolavori, significa interrogare me stesso, sono uno strumento per conoscermi meglio». Tra un recital e l’altro teneva conferenze, approfondiva le amate arti figurative, scriveva libri, poesie, saggi lucidissimi. Una carriera atipica, con i più grandi artisti del secolo, da Fischer-Dieskau a Karajan.
Nel 2000, a Roma, partecipa alla trionfale cavalcata beethoveniana con Abbado e i Berliner. I cinque Concerti, eseguiti da Pollini, Cascioli, la Argerich e Kissin. A lui tocca il Quarto.
Lo scorso anno, sempre a Roma, un arrivederci col magone, applausi duri e immalinconiti, spettatori in piedi che non vogliono lasciarlo andare via.
Suona spesso con cerotti sulle dita. Sta seduto sul bordo della sedia, per osservare meglio il paesaggio sonoro che va edificando. Lungo e penzolante come la torre di Pisa, rughe come solchi millenari, occhiali da Ragionier Filini. Pianista impeccabile, asciutto, lineare, mai provocatorio, un volume di suono contenuto. Però carico di tensioni spirituali. Non gigioneggia, non ostenta, perché «il sentimento celato agisce talvolta con maggiore forza di quello esibito», spiega. «Conosco i miei limiti come virtuoso», chiarisce. Ma in certi casi «il di meno è un di più», scrive Robert Browning.
Il suo pianismo dà l’impressione di un disegno a penna, canta sempre e ovunque, ammalia, incanta. Con lui è naturale parafrasare S. Agostino («La lettera mostra i fatti, ciò che devi credere lo dice l’allegoria»): le note mostrano il testo, il senso lo svela l’interprete. Sempre Brendel ha colto un frammento di verità e ce lo ha riproposto con persuasività. Ci ha rivelato la febbre nella lucidità, l’inquietezza nella precisione. «Il caos deve rilucere attraverso il velo dell’ordine», dice.
Pianista inquietante: il suo Haydn è irriverente, corrosivo, perfino sinistro. Lo Schubert di Brendel danza sull’orlo dell’abisso con sicurezza da sonnambulo. Mozart non è mai stato così sensuale. Liszt è tridimensionale, eternamente barocco. Il suo Beethoven costruisce anche quando sogna (mentre Schubert sogna anche quando costruisce). «Ci ha rivelato il male oscuro della civiltà classica di cui è interprete eminente», ha sintetizzato Piero Rattalino. Le sue regole di vita sono puro understatement: «Non reagire alle critiche sui giornali. Non imprecare quando sbagli. Vivi con l’orologio. Fai in modo di essere spesso solo. Guardati attorno. Ama». Scettico e cinico, quando parla di sé; appassionato e lampeggiante, quando suona. Leopardiano: dalla tastiera proclama che la realtà è illusione, eppure ci carica di un’attesa infinita. La negazione di Brendel, paradossalmente, racconta di un grido umanamente così vero che appare segno incancellabile di una promessa strutturale.



– I. Allegro

– II. Andantino

– III. Scherzo

– IV. Rondò

– IV. Rondò

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