Capelli bianchi, ricci e arruffati. Occhiali spessi. Sguardo da ragazzino furbo e curioso, anche se la sua scheda anagrafica declama “nato a Pordenone nel 1954”. Mirto Mozzon è docente di chimica alla facoltà di ingegneria dell’Università di Padova. Giovanissimo è entrato in facoltà, tra formule e alambicchi, ma negli austeri corridoi universitari ha portato anche un altro bagaglio di passioni: l’amore per Fabrizio De Andrè. Cellule, nanoparticelle e molecole sono solo una parte della vita di questo docente: l’altra parte è costituita dalla passione per il cantautore genovese, che ha fatto del prof. Mirto il più importante collezionista italiano (ma si potrebbe dire “mondiale”) dell’autore de La Canzone di Marinella (De André è protagonista fino al 21 giugno di una grande retrospettiva al Palazzo Ducale di Genova; link per ulteriori informazioni, link per  un giudizio critico sulla mostra).



Provocare Mirto sulla sua passione musicale equivale a scoperchiare una pentola a pressione: «Credo di poter dire che tutto è nato nel febbraio dell’’82, quando De André è venuto a suonare a Padova, al Palasport San Lazzaro. Era la tournée che seguiva l’uscita dell’Indiano, un disco andato nei negozi nell’estate dell’81. È ovvio che già conoscevo la sua musica da prima, da molto prima…». Da quanto prima? In fin dei conti De André è in circolazione da metà degli anni Sessanta… «Ricordo ancora quando ho sentito la prima canzone di De Andrè: avevo 15 anni e in macchina, all’autoradio, ho sentito per caso Bocca di Rosa: magnifica! Il primo disco che mi sono comprato è stato invece “La buona novella”. Era il 1970 e siccome a casa mia non avevo un giradischi, andavo sempre a sentirlo a sentirlo alla Casa dello studente a Pordenone. Tra il 1970 e gli anni successivi non posso dire che mi si fosse accesa una grande lampadina: De André mi piaceva, ma niente di più. Poi, invece, nell’’82 lo vedo sul palco, lo sento cantare, lo vedo suonare e decido: questo è il mio artista». E così, in una sera fredda dell’inverno ’82, il “ricercatore” Mozzon cambia pelle e decide di diventare un collezionista. Non è una cosa da tutti i giorni: cosa è scattato? Mirto ci pensa e risponde di getto: «Non so perché, ma credo sia stato per l’emozione. Un’emozione fortissima. Non solo estetica, ma proprio un coinvolgimento totale, personale. Così da quella sera mi sono messo a cercare di avere tutto quello che portava il suo nome».



Così è partito il tutto, la febbre, la malattia, potremmo quasi dire l’innamoramento. Di canzone in canzone, di disco in disco, una cosa tira l’altra fino ad arrivare ad assommare una collezione di alcune migliaia di pezzi tra ellepi, 45 giri, stereo8, audiocassette.
Il pezzo più “pregiato”? «Risposta facile: un’edizione rarissima dell’Indiano. Poi alcune rarità come il 45 giri olandese Andrea/Volta la carta o il 45 giri della Cuccagna, il secondo inciso da De André». Un singolo che ha anche una sua storia: Mirto, la raccontiamo? «Vediamo un po’: siamo nel 1961 e questo ’45 giri che si intitola La ballata dell’eroe esce vendendo decisamente poco. Qualche settimana dopo Luigi Tenco va da Fabrizio e gli chiede se può incidere la canzone per un film di Luciano Salce che si chiama La cuccagna. De Andrè dice ok e Tenco la incide in un ep con 3 canzoni. Il film ha un discreto successo e il pubblico premia la versione di Tenco. Allora la Karim – che in quegli anni è la casa di De Andrè – ristampa il disco con una cover diversa dall’originale con la titolazione dal film La cuccagna e a questo punto il disco vendicchia un po’». Inutile dirlo: Mirto ha entrambe le versioni, vero? Il professore mi guarda sorridendo… «E certo che le ho! Ci mancherebbe…».



Mirto Mozzon è diventato docente di chimica perché appassionato “di cose vive e di vita”. Forse anche per questo il De André che apprezza di più è quello dei concerti: «Fabrizio era un ottimo musicista – racconta il prof. – e dal vivo quando lo vedevi e lo sentivi capivi perché fosse così influente su tutta la musica italiana». Nella collezione del professore ci stanno oltre duecento concerti, registrati in tutta la carriera di De André.
Qual è il periodo più ricco e fecondo? «Secondo me quello del tour ’92-’93. Le versioni di Nancy, Le passanti, Amico Fragile e Andrea, a mio parere sono le miglior di sempre».

A casa del professore ci sono centinaia di ore di De André, canzoni, concerti, registrazioni “minori” e capolavori. Il prof. se le ascolta in auto, oppure alla sera tardi, quando la famiglia è già a nanna. E allora vinili di tutti i colori (edizioni rare e bizzarre) escono dalle loro custodie e finiscono sul piatto e la voce – calda e scandita nell’indimenticabile pronuncia – di Fabrizio ritorna a rivivere come se il tempo si fosse fermato “prima” dell’11 gennaio 1999.
Mirto, cosa ha lasciato “in eredità” il Fabrizio della canzone? «Do una risposta non artistica: le sue cose più grandi sono state… i suoi insegnamenti, il rispetto verso gli ultimi, verso chi è diverso dal grande potere sociale. E poi rimane per sempre il fascino che suscitava in lui la bellezza: quando per Anime salve entrò in rotta di collisione con Ivano Fossati, chiamò Piero Milesi per finire il disco. Milesi gli chiese: come vuoi questo arrangiamento? E Fabrizio: Bello. Solamente bello. Per questo era grande».
I suoi insegnamenti? La bellezza? Sembra quasi un’eredità morale o religiosa… «Ed è proprio così! Ma molti dimenticano proprio la passione etica, spirituale, religiosia che c’era in lui. Già nel ’67 aveva scritto Si chiamava Gesù, venuto da molto lontano, e poi Il pescatore e Preghiera in gennaio. Anche se nulla potrà mai raggiungere l’intensità di Smisurata preghiera:
“Ricorda Signore questi servi/ disobbedienti alle leggi del branco/ non dimenticare il loro volto/ che dopo tanto sbandare/ è appena giusto che la fortuna li aiuti”.
È notte ormai. La chiacchierata è andata avanti tra bicchieri e canzoni. Mirto il professore ha tra le mani una copia di Anime Salve. L’ultimo cd di De André. Son passati dieci anni dalla morte del cantautore genovese: «Sai cosa ti dico? Fabrizio è uno dei pochi che le gente ricorderà davvero tra cento anni…». E sorride dietro le lenti spesse e sotto i riccioli bianchi.