All’età di 86 anni si è spento il musicista jazz George Russell. Il suo nome forse non è conosciuto al grande pubblico come quello di Miles Davis, di John Coltrane o di Bill Evans, ma proprio di questi ultimi (solo per citarne alcuni) è stato un’indubbia fonte d’ispirazione. Nato nel 1923 a Cincinnati, si affermò come grande teorico scrivendo ”The lydian chromatic concept of tonal organization” che sistematizzò i “modi” da cui prese avvio il cosiddetto jazz modale. Francesco Chiari, musicologo studioso di jazz, ma non solo, delinea i tratti fondamentali di questo artista e la sua influenza sulle più importanti figure della storia del jazz.




Musicista, arrangiatore, compositore, teorico: quale di questi aspetti di George Russell hanno lasciato maggiormente il segno?

Non ebbe fortuna come pianista, nè come batterista (venne richiesto da Charlie Parker per il suo gruppo, ma dovette rinunciare per la tubercolosi).
Come compositore e arrangiatore scelse una strada “intellettuale” che cercava di unire la tradizione del jazz ad altre tradizioni. Si autodefiniva un “evoluzionario” e non un “rivoluzionario”, il suo desiderio non era quello di voler cambiare la musica, quanto di sovrapporre dimensioni diverse.
A differenza di Gil Evans non lavorò mai per orchestre commerciali e non vide le sue composizioni diventare standard del jazz. Possiamo definirlo un grande intellettuale del jazz che non scese mai a compromessi.
Ebbe grande fortuna come teorico, come organizzatore di concetti, un’impostazione che  probabilmente derivava dai genitori, docenti universitari.




Quale fu l’impatto del suo trattato: “The lydian chromatic concept of tonal organization”?

È un lavoro del 1953 che non inventava, ma sistematizzava la “modalità” (in special modo quella lidia) che, uscendo dalle regole della tonalità, dalle sue scale maggiori o minori, apriva nuove possibilità. I modi potevano essere utilizzati come “colori” e ricombinati con criteri  nuovi.
In qualche modo il jazz modale fu una risposta al bebop che aveva esasperato le armonizzazioni, la velocità… c’era bisogno di  più respiro. Davis sintetizzò così: «Ci saranno meno accordi, ma infinite possibilità di utilizzarli».



Quali sono i riferimenti discografici più importanti per quanto riguarda il cosiddetto jazz modale?

Il disco più autorevole e di maggiore successo è sicuramente “Kind of Blue” di Miles Davis (1959).
Prendiamo, ad esempio, So What : è un brano basato sul modo dorico (re dorico, con l’inciso in mib dorico) e presenta un tema esposto dal bassista a cui rispondono i fiati.
L’armonizzazione realizzata da Bill Evans con intervalli di quarta crea uno stato di sospensione (la quarta prende il posto della terza, che avrebbe chiarito la “qualità” dell’accordo) e aprirà a ulteriori sviluppi.
 

Prestando attenzione ai soli si può notare lo stile volutamente “prosciugato” di Miles Davis, quello torrenziale di Coltrane (che sembra suonare tutte le note del modo), la voglia di divertirsi di un musicista molto ancorato al blues come Cannonball Adderley e la capacità di compenetrare tutte le possibilità armoniche attraverso stupendi accordi di Bill Evans.

Ma Bill Evans, come Davis stesso, aveva già collaborato con Russell. Se prendiamo “Jazz Workshop” del 1956 ci troviamo davanti a un disco di Russell (con Bill Evans) che tre anni prima sistematizza il jazz modale anche se non riesce a renderlo famoso perchè non ha lo stesso successo che poi avrà “Kind of Blue”.
Il brano Concerto for Billy the Kid a un primo ascolto sembra un brano bepop al sapore latino, in realtà alterna sezioni modali a sezioni tonali.

La parte iniziale non è improvvisata, è scritta e si basa su due cellule di quattro note provenienti dal modo dorico, dopodichè c’è un’improvvisazione, che Bill Evans sviluppa con la sola mano destra, sul brano I’ll Remember April.
Per la prima volta nello stesso brano vengono messe a confronto due concezioni del jazz: il modale e uno standard anni Trenta.

Russell influenzò anche un altro protagonista di “Kind of Blue”, il sassofonista John Coltrane. Come interpretava il jazz modale e in cosa si differenziava da Miles Davis?

Coltrane era un divoratore di metodi, trattati e libri in generale. Studiò il lavoro di Russell e il “Thesaurus of Scales and Melodic Patterns” di Nicolas Slonimsky, che conteneva, come si può immaginare, un’infinità di scale possibili, che studiava ogni giorno.
Si potrebbe dire che Coltrane sintetizza nella sua figura ciò che Russell avrebbe voluto fare, per la mole di studi compiuti che poi riversava e reinterpretava nel jazz. Il suo disco “A Love Supreme” (1964) rappresenta l’apoteosi del modale nel suo senso più profondo e si può dire religioso.
Si diceva interessato a tutte le religioni (aveva un nonno predicatore pentecostale, si avvicinò all’Islam, al Cattolicesimo e alle religioni indiane). Il modale diviene una gigantesca preghiera. per l’amore supremo di Dio, a cui si riferisce il titolo. Il musicologo Lewis Porter una trentina di anni fa scoprì che nel brano Psalm, Coltrane addirittura “recitò” con il sassofono la preghiera presente all’interno del libretto del disco. La metrica è rispettata.

Se per Miles Davis il jazz modale aveva rappresentato una delle parentesi di un artista abituato a cambiare sempre pelle, per non farsi imbrigliare da nessuno stile, compreso il suo, per Bill Evans era un ritorno alle radici, alla musica e ai canti ortodossi che la madre russa gli aveva fatto conoscere. Coltrane lo utilizzò invece per “elevarsi”. Era segnato da una fame inguaribile di musica, di conoscenza, un’ansia di ricerca che lo avrebbe portato alla morte.

(Intervista a cura di Carlo Melato)