Sta per essere pubblicato il diario d’un viaggiatore speciale, il gardesano Marco Preti, esploratore nomade, alpinista, globe-trotter e molto altro ancora. Scopritore di mondi lontani. Regista, cameraman, cineoperatore specializzato in documentari estremi: montagne, oceani, deserti, jungla, ghiacci eterni. Compie ascensioni in Thailandia, alle Seychelles, in Polinesia.
Arrampica in Borneo e in Camerun, apre una nuova via sul Monte Kenya. Raggiunge due volte l’Antartide in barca a vela e scala gli iceberg.
Nella Penisola Antartica, dalla parete sud del monte Jules Verne, raggiunge per primo la cima inviolata del Pilot Peak.
Avventura, sempre. Suoi filmati sono andati in onda alla Bbc, su Discovery Channel, per National Geografic, Rai, Mediaset.
Che tipo di paesaggi sonori ha incontrato Preti? C’è musica anche in quelle zone supremamente inospitali del pianeta? E che nuova esperienza d’ascolto può accadere?
«Innanzitutto, la distinzione fra suono e rumore si è rivelata del tutto inadeguata, vaga, fallace. La parole degli uomini sono anch’esse musica, la natura risuona in ogni sua impercettibile manifestazione, i suoni intonati diventano voce dello spazio da cui provengono. Per esempio, nel bacino fluviale del Congo ho visto donne di Pigmei suonare uno stagno: immerse fino alla vita, percuotevano la superficie dell’acqua, cantavano e danzavano, usando ascelle, avambracci, palmo delle mani, il corpo intero, con un ritmo ossessivo, che cresceva e calava, ora infernale, ora ipnotico. I maschi dalla riva picchiavano furiosamente i loro tamburi. Poi si sono aggiunti i canti dei bambini, battiti di mani, grida altissime, versi rochi, fuochi accesi ai bordi, ombre che ballavano nel buio, chiari spruzzi d’acqua, una notte appiccicosa e nera come il catrame… È stato in assoluto il concerto più coinvolgente, tribale, orgiastico, cui abbia assistito. L’udito è solo un frammento di totalità, è davvero una piccola parte, in uno spettacolo di questo tipo».
Preti s’infervora, narra, s’incanta, si arresta e riparte, come cercasse le parole più indicate. Nel suo racconto compaiono trombe funebri del Madagascar, corde di budello sfregate della Mongolia, fischi e soffi di isole Fiji e Nuova Zelanda, pelli battute del Mali. Ma forse le esperienze foniche più radicali sono quelle naturali. L’intero campionario di rumori conosciuti trova posto nelle descrizioni di Preti. I quattro elementi dominano incontrastati: l’aria fischia, penetra, assorda, ferisce i sensi; il calore crepita, schiocca, ronza e immobilizza ogni movimento; l’acqua gorgoglia, accarezza, esplode; la terra brontola, scricchiola, sollecita micro e macro- frequenze.
«In molte zone del mondo l’uomo ascolta la sferza delle piogge e ne modifica il suono come se stesse componendo musica. Certe montagne della Sierra Nevada sembrano gemere durante l’infinitesimale crescita delle radici millenarie delle sequoie. Cigolii minerali e vibrazioni vegetali, frinire assordante di cicale, rumore continuo e stridulo, urla gutturali di gorilla, incredibili suoni mai uditi provenienti dalla natura». Cavità di rocce e terreno diventano immense orecchie spalancate, specie di radar naturali, calamite di segnali. Ciò che sembra vuoto e silenzioso improvvisamente si popola di presenze, pullula di vita, freme di messaggi che aspettano solo di essere captati. Minimi e preziosi brandelli di suono ovunque.
«Nelle foreste dell’Africa nera sono stato travolto da orchestre sterminate di musicanti animali scriteriati. In Antartide ho udito suoni da girone dantesco: il mare entrava in un’enorme cavità d’un iceberg e ne usciva con un immenso rimbombo amplificato. Qualcosa di profondo e spaventoso. In mezzo ai ghiacci dello stretto di Bering il vento assume decine e decine di sfumature, ma quello che davvero ti mozza il respiro sono i suoni cupi dovuti a masse di neve che si staccano. Nelle estreme isole polinesiane senti il ruggito dell’oceano: la sensazione prevalente è paura e istinto di sopravvivenza».
Dove hai trovato pace e silenzio? «Nelle smisurate grotte del Chiapas, in Messico, a trecento metri di profondità, sono stato immerso nel silenzio assoluto».
Dopo questi viaggi, torni alla musica occidentale con orecchie diverse? «In un certo senso sì. Lo stacco è totale. Come quella volta che, dopo 73 giorni di paludi equatoriali, sul camion che mi riportava alla civiltà ho messo alle orecchie le cuffie di un walkman e mi sono sparato, a tutto volume, le note della Traviata».



(Enrico Raggi)

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