Sono trascorsi quarant’anni dal 1969, anno dell’uomo sulla Luna e del festival di Woodstock. A metà agosto di quell’anno oltre 500.000 americani furono spettatori di una kermesse musicale senza precedenti, dando vita all’evento rock più celebre della storia.
Un evento spesso osannato per i suoi significati generazionali o “rivoluzionari”, ma di cui, forse, nessuno ha raccontato le “storie umane”.
Ecco, senza miti o riverenze, la storia di quel che è successo prima, durante e dopo, a Woodstock e alle persone che ne sono state protagoniste…



Venerdì 15 agosto, ore 17.07, fattoria di Max Yasgur. Racconta Michael Lang nel suo libro “Woodstock”: «Con indosso un dashiki arancione e pantaloni bianchi, Richie Havens salì sul palco con la sua voluminosa Guild acustica e si appollaiò su uno sgabello di legno. Affiancato dal percussionista e dal chitarrista parlò al pubblico come se si trovasse al Caffè Wha?: “Gente, alla fine ce l’abbiamo fatta! Ci siamo riusciti. Non potranno più tenerci nell’ombra”».
Il Festival finalmente inizia. Con solo un’ora di ritardo sul programma previsto, davanti a oltre 200.000 spettatori. Il primo giorno – come da cartellone – è dedicato alla folk music. Richie Havens è però tra i pochi musicisti che erano riusciti a raggiungere il palco: gli altri erano ancora bloccati nell’ingorgo oppure stavano arrivando via elicottero. Lang e Kornfeld riescono a convincere il gigantesco chitarrista folk afro-americano (doveva suonare per quinto) a salire sul palco subito, a rompere il ghiaccio: Richie suona per quarantacinque minuti, ma alla fine del suo set gi dicono “prosegui, vai avanti…”. E lui prosegue, poi prosegue ancora, poi – dopo circa novanta minuti di spettacolo e di bis comprendenti Hey Jude e Strawberry Fields Forever – inizia a improvvisare una canzone che lo legherà alla leggenda di Woodstock, “Freedom, oh freedom, sometimes i feel like a motherless child…”. Improvvisazione, calore della folla, le note che volano nell’aria: si intuisce che non è un concerto qualsiasi.
Quando Havens scende dal palco, con gli organizzatori ancora incapaci di dare una normale prosecuzione al concerto (causa assenza degli artisti), Artie Kornfeld spedisce sul palco un santone indiano, che si mette a parlare alla folla di pace, di divinità, di reincarnazione. Chi ascolta applaude, gli altri preferiscono birre e spinelli. Quando lo yogi scende dal palco, la musica si rimette in pista, ancora con problemi tecnici immensi: nessuno aveva fatto un sound-check decente e così microfoni e volumi sono quasi in balia del caso.
La seconda esibizione è quella degli Sweetwater, una delle tante formazioni che non ha tratto dal Festival una grande visibilità successiva. Chi sono costoro? Band newyorkese di folk, esegue dieci canzoni (tra cui Oh Happy Day e Let The Sunshine In) con una strumentazione importante (violoncelli, congas, banjo….); nelle sue file si trova anche l’unico italiano ad esibirsi a Woodstock, è Alex Del Zoppo, tastierista dal capello lunghissimo e dalla barba incolta. Anche il set successivo è di quelli “poco fortunati”: in scena Bert Sommer, cantante di bella voce e ottime speranze che – nonostante un concerto da standing ovation per l’interpretazione di America di Paul Simon – diventò uno dei casi più misteriosi di “sparizione” dagli archivi di Woodstock (ne parleremo nella prossima puntata di questa Woodstock Story). Poi il folksinger Tim Hardin, grande artista dalla personalità complicata, purtroppo con un set poco convincente.
Poi ecco lo scatenarsi degli elementi: mentre in scena c’è la musica indiana di Ravi Shankar scoppia il primo temporale. Pioggia violentissima, le strutture che traballano sotto la forza dei venti, la gente che, nonostante tutto, non si muove dal posto guadagnato sotto il palco. Finisce la pioggia e inizia la parte più importante della prima giornata. Sul palco ci va prima Melanie, una delle più famose cantanti della scena newyorkese, poi Arlo Guthrie (figlio di Woody) completamente fatto di acidi che incanta con canzoni perfette come Comin Into Los Angeles, Walking Down The Line e l’eterna Amazing Grace. Per finire, ecco Joan Baez, mostro sacro del folk. Joan, incinta al quinto mese, sale sul palco a mezzanotte. Il suo è uno dei concerti per cui vale la pena esserci: Oh Happy Day, Last Thing On My Mind, Joe Hill, I Shall Be Released, e poi ancora Hickory Wind, Swing Low Sweet Chariot e We Shall Overcome.
Quando Joan scende dal palco sono quasi le due di notte. Il pubblico non si muove, dorme dove si trova: nessuno vuole perdere il posto guadagnato, mentre durante la notte continua a riversarsi nella fattoria di Max Yasgur le gente che arriva dalla Route 17. Circolano sandwich, hashish e allucinogeni, mentre il fango imbratta sacchi a pelo, tende e cucine. Ecco come Lang commenta la fine del primo giorno del Festival: «Il venerdì durò un’eternità, un’eternità piacevolissima. Nonostante le circostanze avverse e le infrastrutture sull’orlo del collasso, stavamo sperimentando (almeno provvisoriamente) il mondo che sognavamo. Malgrado le difficoltà e le incertezze, il festival andava avanti e mi sentivo a casa. A tarda notte schiacciai un pisolino di un paio d’ore in una roulotte e mi svegliai pronto per ricominciare».



(Walter Gatti)

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