A tutti sarà capitato di cantare, almeno una volta, Oje vita, oje vita mia e di sentirsi napoletano fino al midollo, senza riuscire a trattenere il battito delle mani. Eppure, se si fa attenzione, ci si può accorgere che questa canzone nasconde un cuore pieno di malinconia.

Siamo nel 1915, la Prima guerra mondiale ha appena visto l’ingresso dell’Italia nel conflitto e Aniello Califano, autore di successo, scrive per la musica di Enrico Cannio (re dei teatri e delle scuole di canto napoletane) questi versi che si identificano nel soldato che pensa alla fidanzata lontana.

«
Quante notti sono che non ti vedo, non ti sento tra queste braccia, non ti bacio questa faccia, non ti stringo forte tra le braccia. Ma svegliandomi da questi sogni mi fai piangere per te. Oh vita, oh vita mia, o cuore di questo cuore, sei stato il primo amore, il primo e l’ultimo sarai per me».



La nostalgia, la distanza dell’amata. Forse quel ritornello, come faceva Anna Magnani in un vecchio film tv, andrebbe quasi sussurrato, per capirne bene le parole.
Nel libretto del bellissimo disco “Mandulinata Napule” della Collana Spirto Gentil, don Luigi Giussani parla di malinconia come nostalgia dentro il pulsare della vita, nostalgia del rapporto con l’Infinito, che emerge come tristezza. Non parla di disperazione, nè di quel sentimentalismo appicicaticcio che circonda da sempre questi canti.



«Com’è bella la montagna stanotte, così bella non l’ho mai vista! Sembra un’anima rassegnata e stanca sotto la coperta di questa luna bianca… Tu che non piangi e mi fai piangere, stanotte dove sei? Voglio te! voglio te! Questi occhi vogliono vederti un’altra volta!».

Questi versi di Tu ca nun chiagne illustrano benissimo «quell’intensità di tenerezza e di passione che – come scrive don Giussani – i canti napoletani  ti rovesciano addosso».

«
Zitta, stanotte non dire niente – dice l’innamorato all’innamorata in una bellissima notte d’estate – stai fra le mie braccia ma senza parlare… Maria, dentro al silenzio, un silenzio che incanta (“cantatore”), non ti dico parole d’amore, ma le dice il mare per me».



Te voglio bene assaje ci riporta invece agli anni Trenta dell’Ottocento, alla leggendaria tradizione di Piedigrotta.
Pare esistesse, fin dai tempi dei romani, la cosiddetta Grotta di Pozzuoli, luogo di incontri, canti e baccanali (pare che anche Nerone ci sia venuto a cantare). Il luogo venne riconsacrato con la costruzione nel 1200 di una chiesa dedicata alla Madonna di Piedigrotta, legata anche al miracoloso ritrovamento di una statua della Vergine e la festa della natività fa rinascere la pratica del canto, dove lanciare le novità da cantare.

A farla diventare una consuetudine Te voglio bene assaje, scritta nel 1835 da un ottico napoletano, Raffaele Sacco insieme – dice una leggenda – a un grande maestro del melodramma ottocentesco, Gaetano Donizetti, bergamasco, che pure ebbe una lunga stagione napoletana.
La gloriosa tradizione popolare di Piedigrotta finisce attorno al ’59, con l’avvento della televisione, che, lanciando le stelle della musica leggera scivolando nel colore, nella routine e nel distacco dalla tradizione.

In alcuni casi, però le origini possono tornare fuori da un pugliese e una milanese: Domenico Modugno e Ornella Vanoni, vincono infatti il Festival  di Napoli nel ’64 con Tu si’ ‘na cosa grande.

Nei versi riemerge quella lontana sperdutezza, quella malinconia per un oggetto molto più grande di quanto possano intuire e desiderare i due innamorati:«Tu sei una cosa grande per me, una cosa che tu stessa non sai, una cosa che non ho avuto mai, un bene così, così grande». Il canto del cigno di una tradizione?

(Massimo Bernardini)