Enzo Jannacci è in viaggio verso il Meeting di Rimini. Ci risponde al telefono dalla sua macchina, lamentandosi dei dolori alla schiena e degli acciacchi della sua età, ipotizzando improbabili fanghi a Ischia. Enzo è così, inizia a parlare della sua nipotina e i dolori sembrano già svanire.

Caro Enzo, in una tua intervista di qualche tempo fa al Corriere sul caso Eluana invocasti “la carezza del Nazareno”. Volevo chiederti: ti sei reso conto che con quella espressione così umana, mentre gli schieramenti si fronteggiavano, hai commosso tutti? Perché hai potuto dire una cosa del genere?



L’ho detto perché “la carezza del Nazareno” la vedo, su tante persone e su di me. Non pensavo che quell’intervista avesse tanto risalto, però, per uno schivo come me, vedere i cenni di approvazione della gente quando si va in edicola, colpisce. Sai che non vivo per piacere alla gente, anche se mi rende contento. Mi chiedevo: cos’ho detto? cosa è successo?
C’ho pensato, probabilmente ha colpito perché adesso è diffuso l’orgoglio dell’indifferenza, della vergogna. Hai voglia a dire oggi “Ama il prossimo tuo come te stesso”, già se dici “Ama il prossimo tuo” si arriva al panico.



Tu sei un artista, ma non solo un artista, sei un medico che ha passato metà della sua vita a contatto con i malati. Da un medico però non ti aspetti che parli di “carezza”, ti aspetti altre cose…

Sai quante volte si dà una carezza a un malato in coma sperando che esca. Sai come si dice in mare: prima di tutto salvare la vita. Quando salvi una vita è come se avessi salvato il mondo, vale più di tutte le emozioni possibili e immaginabili e questo è quello che ha fatto il Nazareno. La carezza è la cosa più corporale, più vicina.

Come mai, secondo te, oggi si alzano gli scudi ed è così difficile parlare del malato come persona carica di mistero e del suo desiderio di questa carezza?



Il fatto è che molta gente ha sbagliato mestiere e ha sbagliato vita. Alzare le barriere significa guardare, ma poi girarsi dall’altra parte. Combattere chi è uguale a te quando non sai più chi sei tu e diventare ciò che fa più comodo. Ha sbagliato la genetica (se mi sente Veronesi…) secondo cui se mi schianto contro un muro era scritto nel codice genetico. Forse c’è un disegno, senza dubbio positivo, da millenni, da prima che arrivasse Lui. E il Padre Suo li lascia fare, anzi… ci lascia fare, parlo anche di me.
A mio figlio chiedo sempre: come mi trovi? Lui mi dice che mi vede più lento (grazie tante ho 70 anni), ma dice anche che ora sono diverso. Forse anche perché è arrivata quella matta della mia nipotina: ha già un tale temperamento artistico… sfido, è figlia e nipote di comici e musicisti.

Con che sentimento stai arrivando al Meeting? Mi ricordo quando venne il tuo amico Giorgio Gaber e la sua curiosità verso questo mondo, che qualcuno inscatola frettolosamente. Anche tu sei curioso? Con che sentimento vieni?

Certo che sono curioso, sono interessato a vedere il tipo di reazione, ma le cose che dico sono le stesse da più di 40 anni. Ma com’è che funziona? Guarda che vengo a cantare, non son capace di parlare.


Ti preoccupa quello che diranno poi di te?

Non me ne frega niente. Fin dall’inizio ero vicino a Dio, al Nazareno e a quella carezza che è venuto fuori un po’ per volta. Il resto mi interessa relativamente.


Tra l’altro le tue canzoni sono piene di queste cose…

Dico le stesse cose da quarant’anni. Se serve ho qui l’archivio: El portava i scarp del tennis, Vincenzina e la fabbrica, Faceva il palo, El me indiriss…

(Massimo Bernardini)