Ogni concerto di Pogorelich è un’avventura senza preliminari garanzie di vie d’uscita.
Ivo il remissivo: condannato che va al patibolo, saluta un bianco cagnolino e raggiunge lo strumento con dolci falcate da nato stanco, assorto, languoroso, capo reclinato, come emergesse da disabitati Campi Elisi.
Le sue dita sfiorano un Notturno di Chopin (op. 55, n. 2) delibando ogni suono, quasi maneggiando un insetto intrappolato nell’ambra. Ogni nota del canto è isolata come una stella, lontano respiro di un mondo ormai spento.
Ivo il semidivo: le primedonne arrivano con un’ora di ritardo, lui è quasi puntuale; suonano solo in sale prestigiose, lui in una palestra; fanno smorfie e capricci per ogni rumorino, lui avverte appena ventagli e bicchierini di carta; paiono indifferenti agli applausi, lui a tratti sorride. Però esige penombra, no, più chiaro, anzi, semibuio, forse mezzaluce, boh, e blocca ogni richiesta di bis chiudendo platealmente il coperchio del pianoforte.
Ivo il creativo: nella Terza Sonata di Chopin evidenzia voci interne che nemmeno credevamo esistessero, aggiunge accenti, cancella pulsazioni metriche, ne reinventa altre.
Ogni melodia è un’epifania: inattesa comparsa di linee autonome, compiute, irrelate. Perfezioni sensuali di un istante. Chopin come Pärt?
Ivo l’eversivo: indossa il camice bianco del biologo, estrae, mescola, mette il microscopio sullo spartito, ingrandisce un particolare. Scompare l’oggetto, non sai cosa spunterà. Lampi di genio e audaci esperimenti.
Ivo il cattivo: sempre capace di sonorità potentissime, quasi orgiastiche, tripudianti di armonici (a metà concerto serve l’accordatore). Evocatore di miracolose mezze tinte e d’infinte nuances.
Ivo il sovversivo: il testo è un pretesto. C’è appropriazione, revisione, metamorfosi, violenza. Nessuna nostalgia, nessun omaggio. Zero tradizione. Sono trent’anni che uccide qualsiasi partitura gli capiti sotto mano (ma il delitto d’arte è lecito); legge i segni come ombre nella caverna: il fortissimo diventa piano, il lento corre e viceversa.
Ivo il progressivo: a Manerba il Mefisto Valzer di Liszt è diventato una Sagra della Primavera, ritmi da terrore d’ubriaco, puzza di zolfo (vedi il titolo del brano): una mano di Uri Caine era forse rimasta incastrata nella cordiera del piano? Il Valse Triste di Sibelius (d’insostenibile lentezza) era un polveroso salotto di mummie. Tutti si chiedevano cosa potesse nascere dall’incontro fra l’isterismo interpretativo di Pogorelich e la scientifica imperturbabilità raveliana. Ambiguamente prospettico, illusionista, iperdecadente, Pogorelich; antidrammatico, menzognero, astuto distillatore, Ravel. Quale alchimia attenderci? In Gaspard de la nuit sparisce l’elegante Ravel, sbuca un allucinato Scriabin (un po’ bartokiano, specie in Scarbo).
Ravel carezza i suoni, come gli scultori che lisciano la pietra con spugne di colla di pesce per rendere il marmo liscio e luminoso; Pogorelich isola enzimi, batte lo scalpello, zooma. La campana di Le Gibet diviene un gong. Svanisce la colomba, appare un coniglio. Però ha il becco.
(Enrico Raggi)