«Mai avevamo udito nulla di così bello, estasiante, solenne e celestiale, che strappava lacrime a tutti». È questo il tono generale delle cronache del tempo, all’ascolto della musica di Henry Purcell, il più grande compositore inglese che la storia ricordi. Concerti un po’ ovunque in Italia ed Europa, nella celebrazione del suo anniversario. Nel Regno Unito naturalmente è grande festa: la Bbc l’ha promosso “compositore dell’anno” dedicandogli un ricchissimo sito, con gallerie fotografiche, registrazioni, video di spettacoli, interviste a esperti, pubblicazioni varie, tutto scaricabile.
La Purcell Society di Londra e la British Library ne stanno rievocando i fasti, seguite nell’intraprendenza da Canada, Giappone, California, Texas. Scarse e labili come alito sul vetro le sue tracce biografiche. Una vita di candela che s’impone per ampiezza e qualità compositiva: muore trentaseienne, alla vigilia della festa di Santa Cecilia, patrona dei musicisti, cui Purcell aveva dedicato molti lavori. Frenetiche occupazioni musicali, corse in lungo e in largo per Londra e dintorni, una produzione fluviale concentrata in soli quattordici anni. L’alternanza di tre sovrani di fede differente e di gusti opposti non lo favorisce. La corte inglese si rivela inadempiente, economicamente traballante. Rimborsi che non arrivano mai, promesse continuamente disattese, aumenti deliberati che tardano. Incessanti le richieste e le petizioni. Tutto inutile. Il funerale di Purcell è imponente, invano la vedova reclama la pensione. Solenne la cerimonia, come per un principe, ma il monumento sepolcrale lo paga un’allieva.
Il suo stile è un mélange ricco d’influenze, contaminazioni, scambi artistici, ma il rintocco è inconfondibile. Un flessuoso gusto melodico italiano, innestato su inequivocabili passi di danza francesi, avventuroso e audace come solo la Germania sa essere, però intimo raffinato appartato all’inglese. Anche fresco, esuberante, estroverso, languido. Lascivo (nei catches) e devoto (negli anthem).
Nessuno meglio di Dinko Fabris può parlarcene. Docente di Conservatorio (Bari), professore universitario (in Basilicata e in Germania), un dottorato di ricerca conseguito sulle sponde del Tamigi, è il massimo conoscitore italiano di Purcell e autore dell’unica monografia disponibile nella nostra lingua (edizioni L’Epos). «La cultura musicale in Italia è un disastro», avverte subito. «Non compriamo libri che parlano di musica e non esiste nulla di paragonabile alla letteratura di divulgazione d’area anglosassone. Alcune nostre piccole case editrici ci stanno provando. Ma spesso ordinano: “niente esempi musicali, altrimenti i lettori italiani non comprano il libro».
Negli anni Sessanta Purcell era l’autore di “Dido and Aeneas”.
Cosa è cambiato nella ricezione? Errore. Purcell era solo l’autore del “Lamento di Didone”. La riscoperta della musica antica è iniziata in Italia soltanto negli anni Ottanta, vent’anni in ritardo. Sono stati i dischi ad alimentare questa passione. Devo ammettere che nei teatri e nelle sale da concerto Purcell si ascolta poco, casualmente.
Come si spiega il silenzio inglese lungo quattro secoli, fino a Britten? Nazione divisa dal mondo? Isola che non c’è?
La storia non segue una logica coerente. Purcell fu il meraviglioso risultato dell’incontro delle diverse culture continentali con una già solida tradizione britannica. Questa dimensione multiculturale sovranazionale lo favorì. In campo musicale, nel Settecento, l’Inghilterra era all’avanguardia. E l’Italia era una fucina di professionisti che invasero ogni angolo del pianeta. Si produce in natura quel che serve a una certa funzione. Nella città di Napoli, durante il Seicento, c’erano 500 chiese per 400.000 abitanti: migliaia di posti di lavoro per organisti, cantori, strumentisti, compositori.
Ha scritto che “la musica di Purcell sembra scoppiare nel suono”: può spiegare meglio? Oltre 860 numeri d’opera costituiscono una produzione impressionante per un compositore morto all’età di Mozart (che ne compose 626). Da questi due “ragazzi” sprizza un’enorme energia. È come se vi fosse la premonizione del poco tempo che restava. Il suono di Purcell esplode di forza comunicativa. Prepotente vitalità, un fuoco purissimo e potente. Pathos interiore, regalità, purezza, seduzione, grandezza d’animo, emergono da Purcell: quale filologia saprà recuperare quei valori? Atmosfere morali e umane perse per sempre? E poi seduzione timbrica, leggerezza cristallina, un’assoluta contemporaneità con l’oggetto.



(Intervista a Dinko Fabris a cura di Enrico Raggi)

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