Sono trascorsi quarant’anni dal 1969, anno dell’uomo sulla Luna e del festival di Woodstock. A metà agosto di quell’anno oltre 500.000 americani furono spettatori di una kermesse musicale senza precedenti, dando vita all’evento rock più celebre della storia. Un evento spesso osannato per i suoi significati generazionali o “rivoluzionari”, ma di cui, forse, nessuno ha raccontato le “storie umane”. Ecco, senza miti o riverenze, la storia di quel che è successo prima, durante e dopo, a Woodstock e alle persone che ne sono state protagoniste…



La musica, domenica 17 agosto, inizia verso le ore 14.  È un inglese semisconosciuto che va sul palco per primo. Si chiama Joe Cocker, accompagnato dalla Grease band. Interpreta alcuni pezzi rhyhtm’n’blues del suo primo disco (Dear Landlord, Feelin’ Alright) e poi stupisce tutti (anche per gli anni a venire) con una versione leggendaria della beatlesiana With a little help from my friends.
Non fa tempo a scendere dal palco e scoppia sulla zona di Bethel il più forte degli acquazzoni di questo week end. La pioggia scende pesante e ininterrotta per oltre due ore. Il concerto riprende verso le 18: prima con Country Joe in versione “elettrica” in compagnia della sua band, The Fish, poi con il rock travolgente di Alvin Lee e dei Ten Years After (indimenticabili per I’m going home, ma anche per la lunghissima I can’t keep from cryining, sometimes), poi con uno dei momenti leggendari (e meno conosciuti) di Woodstock, vale a dire l’esibizione della Band di Robbie Robertson, una delle più attese di tutto il Festival, dopo che il primo disco di questa formazione (da anni “spalla” di Bob Dylan), aveva riscosso successo e interesse. Dopo tanto rock, con loro va in scena un momento di musica “intima”, quasi “religiosa” (a detta degli stessi componenti del gruppo), con canzoni dall’impianto fortemente gospel come The weight, oppure la dylaniana I shall be released (cantata due volte a poche ore di distanza: era già nel set di Joe Cocker). Verso l’1 di notte è tempo di rhythtmn’blues con i Blood Sweet and tears (quelli di Spinning wheel)e di rock-blues con l’albino Johnny Winter, con nove blues torridi, tra cui la versione iperfamosa di Johnny B. Goode.
Lunedì mattina, la gente inizia a sfollare. I più raggiungono la 17B dove sono pronte decine di navette per New York. Chi ha più energie si mette in marcia nella notte verso la 17, dove spera di trovare un passaggio. Non sanno cosa perdono. Alle 3.30 salgono entrano in scena Crosby, Stills, Nash & Young. L’attesa per il supergruppo è caldissima: tutti molto noti negli States, hanno suonato insieme un solo concerto, la sera prima a Chicago. Il concerto è straordinario e segue l’impianto di 4 way street, il loro live destinato alla leggenda: prima un set acustico con Suite: Judy blue Eyes, Helplessy doping, Guinnevere, Marrakesh express, Mr Soul; poi cinque pezzi elettrici, da Long time gone a Wooden Ships (seconda interpretazione anche di questa canzone di David Crosby e Paul Kantner, un giorno dopo quella dei Jefferson Airplane).
E, per finire, due bis: la delicatissima Find the coast of freedom e la trascinante e pianistica 49Bye-Byes di Stephen Stills. Quasi due ore di musica, pubblico in visibilio. Ma non è finita: mentre spunta il sole, la gente sfolla in massa e la giornata si fa più calda, il poco pubblico rimasto è riscaldato dal blues di Driftin’ e Born under a bad sign della Paul Butterfield Blues Band (band che fa già parte della storia per le collaborazioni con Muddy Waters e Mike Bloomfield) e dal rock’n’roll goliardico degli Sha-na-na (che interpretano pure una scatenata Jailhouse rock). Le energie rimaste sono davvero poche anche per Lang, Kornfeld, Wadleigh e compagni. Ma qualcosa deve ancora accadere: poco prima delle 9 di mattina sale sul palco Jimi Hendrix. È il 18 agosto avanzato, ormai, e secondo Michael Lang «Hendrix salì sul palco incurante del pubblico ridotto a 40mila presenze. Si produsse nel set più lungo della sua carriera: una performance di due ore». Diciannove pezzi, tra cui l’ormai celebre Star Spangled Banner distorta e lacerata e la finale Hey Joe. Alle 10.30 Jimi saluta e se ne va. Cala il sipario.
Secondo il dipartimento della Salute pubblica, in un report del 4 ottobre ’69, durante il festival sono stati registrati 5.162 ricoveri, tra cui 797 overdose. Nessuna nascita, durante il concerto, però sono stati registrati otto aborti spontanei. Nella lista “nera” ci sono finiti tre morti: quelli di due overdose fatali oltre alla morte di Raymond Mizak, schiacciato da un trattore. Il concerto è finito. I guai, non ancora. Michael Lang: «Era la fine della rassegna. Avevo avuto la sensazione che durasse un’eternità e ora mi pareva conclusa in un batter d’occhio. Niente sarebbe più stato come prima».

(Walter Gatti)

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