Come in una preziosa variante del “cortegiano” di Baldassar Castiglione (descrizione del perfetto artista rinascimentale), Michele Barchi suona, concerta, dipinge, costruisce strumenti musicali. Non canta, non recita, non balla. È uno dei più grandi clavicembalisti italiani, la razza dei Dantone Bonizzoni Baiano. Subito si schermisce: «Non facciamo classifiche. Io appartengo a una diversa tipologia di musico». Ha suonato per molti anni nel più rivoluzionario ensemble di musica barocca di fine secolo, Il Giardino Armonico, poi ha deciso di percorrere strade più libere e innovative. Oggi è la mente del gruppo Brixia Musicalis e della rassegna concertistica Nuove Settimane di musica barocca. Possiede molte anime, cento talenti. Non chiamatelo al cellulare quando è in casa, «il cliente è irraggiungibile»; Michele Barchi vive immerso nella pianura di Pralboino, in un ex convento dalle enormi pareti di pietra. Naturalmente restaurato e affrescato dalle sue mani nodose. Homo faber, che agisce perché mosso da necessità interiore, che intende il fare artistico finalizzato all’essere, secondo l’insegnamento della Scolastica: Ars est recta ratio factibilum.
Michele Barchi suona di tutto, principalmente da Trabaci a Mozart, «ma in pubblico affronto solo il Settecento», precisa. «Questa musica comunica una necessità di pulizia e trasparenza che non stancano mai», riassume. Al diploma di clavicembalo (conseguito da autodidatta), imbarazza la commissione perché chiede di realizzare estemporaneamente il basso continuo, senza la preventiva ora solitaria di studio. Niente da fare. Lo rinchiudono nell’aula, come recita il regolamento. Lui esce col capo chino e suona tutto al volo, occhi socchiusi, mascella sprezzante.
Profilo segaligno, cigolante, eppure mosso da inesauribile energia. Animo semplice, ricolmo di fanciullesco stupore, animato da superiore curiosità intellettuale. Per poter suonare la musica settecentesca che lo aveva folgorato, dopo il diploma di pianoforte realizza in proprio il suo primo strumento a tastiera, una spinetta dal suono argentino. «Costava troppo acquistarne una, così ho deciso di costruirmela», spiega come se si trattasse d’una pratica consueta. È l’inizio di una malattia che non lo abbandonerà più. Acquista libri organologici, frequenta cembalari famosi (Alfredo Ryczaj), falegnami, restauratori, ebanisti; recupera vari tipi di legno, li lavora e stagiona con cura. Per alcuni mesi li immerge in acqua e limone (e/o aceto) per purificarli dalle resine, li assembla con sapienza, conficca chiodi, tende corde, incolla, stucca, decora. Insomma, crea dodici magnifici esemplari di tastiere perfettamente funzionanti, tra cembali, virginali, spinette, organi. Basandosi su un antico disegno, vagamente accennato, costruisce perfino un Lauten-Werck, liuto a tastiera, “dal suono rotondo e forte, come di tre liuti assieme”, dicono i trattati d’epoca. Nel mondo ce ne sono pochi altri modelli simili, Ungheria, America. Nessuno uguale al suo. «Procedo per tentativi, sperimentazioni. Verifico e riprovo. Ho rotto centinaia di corde, ho preso un milione di misure. Bisogna calcolare tensioni, diametri, rapporti di forze».
Molti musicisti gli chiedono in prestito gli strumenti, per registrazioni, concerti, dvd, filmati. Recentemente ha costruito un organo con canne di legno, tutto in cipresso, dalla sonorità lieve, calda, incantevole. Un suono paradisiaco. Ma non era l’albero del camposanto?
 



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