La rimasterizzazione degli indimenticabili dischi dei Beatles offre l’occasione per ripercorrere l’opera dei Fab Four e osservarla, cogliendo la novità che  rivoluzionò la musica di allora e che continua a influenzare quella del nostro tempo.
In questa terza puntata dello speciale “Ritorno ad Abbey Road” Francesco Chiari introduce i lettori de ilsussidiario.net all’ascolto di “A Hard Day’s Night” (1964).



Nel 1964 la televisione non era ancora l’emporio omnicomprensivo dei tempi nostri, ma soprattutto un’eccellente vetrina promozionale per nuovi talenti; il medium preferito di comunicazione della musica era ancora lo spettacolo dal vivo non teletrasmesso, oppure il film, spesso ricucito in fretta e furia intorno alla vecchissima formula “dai, mettiamo su uno spettacolo!” o intorno a trame zeppe di formule e cliché, di cui sono fulgido esempio i nostrani – e spesso squallidi – “musicarelli”.



Molte volte però la TV poteva essere il trampolino per un film, come avvenne ai Beatles dopo la loro esibizione televisiva allo Ed Sullivan Show il 9 febbraio 1964, quando la United Artists, impressionata dalle cifre degli ascolti, fece firmare ai quattro un contratto per tre film, e mise immediatamente in cantiere quello che poi divenne A Hard Day’s Night, titolo basato su una frase di Ringo, che si divertiva a deformare il linguaggio con gran divertimento degli altri tre (un altro suo solecismo per indicare il superlavoro fornì il titolo alla canzone Eight Days A Week).

Il film fu girato in meno di due mesi, dal 2 marzo al 24 aprile 1964, e descriveva come noto una giornata dei Beatles, mostrata quasi interamente in ambienti chiusi come a rimarcare l’isolamento del gruppo; lo spunto era venuto al regista, l’americano Richard Lester, dopo che chiese a John come aveva trovato la Svezia, dove il gruppo aveva suonato nell’ottobre 1963, e si sentì dire: «Era una stanza e una stanza e una macchina e una stanza e una stanza e una macchina…».



Naturalmente la colonna sonora doveva per forza di cose essere totalmente originale, e così l’album omonimo, per la prima volta nella discografia beatlesiana, si compone unicamente di brani firmati “Lennon-Mc Cartney”, con George che si limita a cantare I’m Happy Just To Dance With You; altrettanto naturalmente, il successo fu clamoroso, al punto che le vendite della colonna sonora bastarono a coprire le spese di produzione del film.

 

 

Le condizioni in cui il lungometraggio fu girato costrinsero i Beatles a scrivere e incidere i brani in breve tempo e sotto pressione, ma come spesso capita in questi casi l’esito fu un trionfo: certamente questo è il primo album, non solo dei Beatles ma nella storia del rock inglese (e non), a mostrare una creatività costante e uniformemente alta in tutti i tredici pezzi, e anche quelli più brevi e in apparenza meno riusciti, come I’ll Cry Instead, si sarebbero rivelati degni di ulteriori rielaborazioni (il brano appena citato fu il singolo di esordio di Joe Cocker, che ne fece una versione fantastica).

Per di più, come scoperto in seguito, ben dieci canzoni su tredici sono interamente di John, che compose anche l’inciso di And I Love Her, colorando di scuro la sognante beguine da ballo "guancia a guancia", fra l’altro il primo brano dei Beatles ad essere ripreso da artisti di altri generi, con versioni che vanno da quella orchestrale e sinatriana di Jack Jones a quella intrisa di soul di Ester Phillips, quest’ultima col titolo ovviamente modificato in And I Love Him.

Ciò lascia a Paul solo due brani, ma molto importanti: Things We Said Today riprende da Don’t Bother Me il gusto per un tracciato melodico filante e continuo, ma lo coniuga con un gusto molto marcato per le belle armonie ricche di imprevisti, procedimento questo che Paul userà molto spesso per brani non destinati al gruppo, come Step Inside Love scritta quattro anni dopo per Cilla Black.

L’altro brano di Paul, Can’t Buy Me Love, è un blues di dodici battute con un ponte di otto, la stessa struttura di You Can’t Do That di John, e se pensiamo che i brani erano anche sulle due facciate di un singolo, possiamo toccare con mano l’approccio differente dei due al medesimo procedimento con cui si rivelano le due anime del gruppo. Paul procede su un tempo swingante, solare, eccitante, nel quale si riverberano echi di jazz tradizionale (suo padre James suonava per hobby la tromba in un complessino dixieland) e che giustificano la non sorprendente inclusione del brano nel repertorio nientedimeno che di Ella Fitzgerald; John fende l’aria con la sua grinta rock venata di soul, quasi a risuscitare la sua anima selvaggia di rocker in giubbotto di pelle, anima che il manager Brian Epstein aveva edulcorato per il consumo di massa e che qui riemerge in tutta la sua portata.

Tutto il disco, in effetti, è un passo importante nel cammino che dal pop condurrà al rock, come testimonia l’influsso che ebbe in tanti musicisti: un giovane Jim Mc Guinn – non ancora ribattezzatosi Roger – dopo aver visto il film fondò subito un gruppo noto inizialmente come Beefeaters, in omaggio alla Gran Bretagna, e poi come i Byrds.

Se infatti ascoltiamo il brano del titolo, notiamo che esso si apre con un accordo che fonde insieme la dominante di sol e la tonica di do, l’inizio meno pop immaginabile, e che poi si rivela un altro blues con ponte, senza i tipici accordi blues nella sezione in dodici battute ma con una melodia molto bluesy incentrata sul modo misolidio, e con un inciso pop, come a condensare in pochi minuti l’intero spettro musicale dei quattro. Per di più, la coda non risolve sulla tonica, ma sfuma su un arpeggio prodotto dalla chitarra di George, una Rickenbacker a dodici corde con le seconde sopra le prime, non sotto come nella dodici corde acustica: lo stesso modello finirà in mano al citato Mc Guinn e diventerà il marchio distintivo dei citati Byrds. Tanto grandi erano i Beatles che, mentre celebravano il proprio mondo musicale, ponevano anche le basi per il suo superamento.

Una curiosità per concludere: il film fu distribuito con titoli diversi in vari paesi, per cui in Italia divenne Tutti Per Uno, in omaggio certamente ai Tre Moschettieri, in Francia acquisì il titolo più simpatico, Quatre Garçons Dans Le Vent, e in Germania quello più demenziale, Yeah Yeah Yeah, a cui personalmente non volli credere fin quando non trovai una copia del vinile originale Odeon in un negozio di dischi usati a Düsseldorf.

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