Il teatro musicale

Poi c’è la sterminata produzione del teatro musicale. Per conoscerla e farla tornare a vivere però c’è un’altra strettoia per cui bisogna passare: la sostanza drammaturgica dei libretti. La debolezza di molte di queste opere è che mancano di vera azione drammatica, a differenza di quelle scritte da Lorenzo Da Ponte per Mozart. Il re dei librettisti in quell’Europa settecentesca è Pietro Metastasio, poeta cesareo per cinquant’anni alla corte di Vienna. Autore di arie, rime, bellissimi versi scritti in un italiano stupendo,  ma anche un gran… noioso: ogni cinque minuti ci mette dentro la morale, bloccando gli sviluppi dell’azione. I musicisti non erano certo facilitati: niente contrasti, movimenti ridotti all’osso. Così si abbandonavano al gusto di scrivere pezzi  bellissimi su versi elegantissimi. Musica ferma, anche se meravigliosa. La gente nei palchi dei teatri faceva altro ma appena partivano le arie più famose tornava attenta per sentire come le aveva musicate il nuovo arrivato. Prendiamo “Demofoonte”, l’opera seria di Niccolò Jommelli (uno dei 73 maestri che l’hanno musicata) che ho affrontato quest’anno. Nella sua quarta versione è stata scritta per il San Carlo di Napoli nel 1770, coi nomi dei più grandi castrati dell’epoca – in primis Giuseppe Aprile – in cartellone. Mi siedo al pianoforte e li vedo, Aprile e la primadonna, la Bianchi, alle prese con queste arie infinite, difficilissime (penso per esempio al finale del Secondo Atto: Dircea e Timante in una gara di semicrome all’ultimo respiro). Vedo la loro fantastica arte dell’improvvisazione fatta di lunghe colorature e note tenute, vedo il pubblico del San Carlo entusiasmarsi o commuoversi fino alle lacrime. Penso alla bizzarria un po’ malinconica di questi coltissimi virtuosi richiesti in tutta Europa: Aprile, Farinelli. Facevano cose inaudite, come la loro famosa “messa di voce” (l’arte di far crescere una nota e di riportarla gradatamente fino al pianissimo), con l’orchestra tutta attorno, fra le candele e i fogli manoscritti svolazzanti (la buca non era ancora stata inventata). È un mondo, un intero mondo napoletano e italiano dimenticato che cerco di riportare in scena nel modo più prezioso e più vivo possibile, grazie all’impegno davvero eroico di un gruppo di giovani cantanti e dei miei ragazzi della Cherubini.
Pensateli davanti al pubblico di Salisburgo o dell’Opera di Parigi, che si accosta con grande curiosità ad autori che non conosce. Di Domenico Cimarosa e Giovanni Paisiello qualcosa sa, di Niccolò Jommelli quasi nulla, di Tommaso Traetta, grandissimo musicista, forse più importante di Jommelli, niente del tutto. Eppure quel pubblico reagisce con disponibilità. Probabilmente pensa: «C’è Muti che fa da garante» e i festival ragionano allo stesso modo. Ma poi fanno i conti: quanti biglietti venduti, quante presenze. Il pubblico francese all’inizio era perplesso: alla fine ogni sera è finita con l’applauso ritmato, che lì è il massimo riconoscimento. Cinque recite, cinque “tutto esaurito” con 2.000 posti a sera all’Opèra Garnier: 10.000 persone che hanno riscoperto Jommelli (che peraltro aveva già un busto, ormai dimenticato, all’interno del teatro).



Aprire lo scrigno

Il mio compito era questo: riaprire lo scrigno. Ora ce n’è per tutti. Ho cominciato tre anni fa con un’opera di Cimarosa, Il ritorno di Don Calandrino, e un noto personaggio tedesco ha detto una cosa che mi è rimasta impressa e mi conforta molto: «Dopo l’ascolto di quest’opera ho capito che Mozart non è piovuto dal cielo». E a Salisburgo sento molto spesso il pubblico dire: «Ci pare di sentire Mozart».  Solo che questa musica è stata scritta oltre un decennio prima che Mozart scrivesse i suoi grandi capolavori con Da Ponte. Mozart incontra Jommelli, che ha quindici anni più di lui, nel 1772 ed è colpito dalla sua personalità e dall’importanza del Demofoonte, tanto che ne musica anche lui cinque arie. Questo mondo napoletano – e da napoletano ne sono orgoglioso – ha arricchito le biblioteche di tutta Europa. Jommelli fece carriera alla corte dei Württemberg, a Stoccarda, dove ha lasciato 26 opere e aveva costituito un’orchestra fantastica, considerata insieme a quella di Manheim fra le più eccellenti del continente, con i più grandi strumentisti dell’epoca: primo violino il livornese Pietro Nardini. Io vengo da lì, da quel mondo profondamente italiano ed europeo. La prima opera in assoluto che ho diretto – ero ancora allievo al Conservatorio di Milano – è stata L’Osteria di Marechiaro di Giovanni Paisiello, al Teatro dell’Arte. Allora il Conservatorio aveva un’orchestra “rinforzata” dagli insegnanti, e magari fra i violini trovavi Paolo Borciani del Quartetto Italiano… altri tempi. (Comunque è anche l’opera che mi ha portato al matrimonio: Cristina vi cantava la parte di Lesbina). Questo il primo approccio. Il secondo, più ufficiale, a inizio di carriera, nel ’67 a Napoli con l’Orchestra Scarlatti della Rai per due opere: una di Domenico Cimarosa: Chi dell’altrui si veste, presto si spoglia, in due atti, inframmezzata da un intermezzo di Domenico Scarlatti: La Dirindina. Regia di Franco Enriquez, protagonisti Sesto Bruscantini e Paolo Montarsolo. E non basta: come clavicembalista avevo un certo Roberto De Simone…
È un desiderio un po’ “italico” il mio, forse tipico di noi gente del Sud. Vengo da una terra di campagna, sono cresciuto tra gli ulivi delle terre di Puglia, con queste radici. Dobbiamo recuperarle per capire cosa siamo oggi e cosa saremo in futuro (già ci siamo venduti Monteverdi agli inglesi e agli olandesi, che dicono: «L’incoronazione di Poppìa» , invece che Poppea. E pensare che lui raccomandava di «recitar cantando»…).
Io nelle radici ci credo. Le radici sono sotto terra, non le vedi perché ad apparire sono solo le foglie e i frutti, ma se tagli ciò che è sotto e non si vede, l’albero alla fine muore: niente più foglie, niente più frutti. Diamo acqua a queste radici, rendiamole presenti. E soprattutto riprendiamoci questo mondo: è nostro ed è ancora vivo.



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