La mattina Fratelli d’Italia intonato guidando undicimila giovani venuti ad ascoltarlo su merito e lavoro insieme a Formigoni e alla Marcegaglia; il pomeriggio Schumann, Schubert, Chopin e Beethoven al pianoforte: ma in carcere, a Bollate. Riccardo Muti un giorno a Milano, proveniente da Parigi, a pochi giorni dalla sua ripartenza per Chicago, lo passa così, rovesciando le cose della vita. Incontri con realtà come questa di Bollate li ha già fatti in passato nella sua Ravenna, e negli Usa, insieme a Yo Yo Ma, ne sta preparando per i ragazzi del riformatorio di Chicago.
Qui a Bollate la direttrice Lucia Castellano mostra al maestro i raggi della casa penitenziale chiamandoli “la nostra città dolente”; solo le donne e i detenuti impegnati nel laboratorio artistico sono qui stasera, l’aula non ne conterrebbe di più. È stato Willi Bulandi, un ex detenuto che faceva parte del laboratorio inventato da Marlena Bonezzi, corista della Scala (tre mesi sui Kindertotenlieder di Mahler, con esecuzione e filmato finali) a invitare Muti. Il maestro ha detto di sì.
Parla ai carcerati, cordiale, diretto: «Quello che avete letto di me è falso, non sono distante, superiore, noioso come la musica che qualcuno definisce classica. La musica è una sola: è fatta di suoni che esprimono concetti. Uno qualsiasi che entrasse per la prima volta in una sala da concerto può capirne di più di un ascoltatore per professione. Non c’è bisogno di essere intellettuali, non credo se non alla aristocrazia dell’anima». Come fossimo a scuola si siede al piano e chiede di dar retta alle emozioni. Qualcuno fa il buio in sala ma lui esige le luci perché «Io sono ancora vivo. Diceva mia mamma: dopo staremo allo scuro per tanto tempo…».
Nonostante fotografi e telecamere l’incontro comincia. Muti parla, parla e suona. «Schumann, grande intellettuale, grande infelice». racconta di Robert e Clara, di sofferenze e contraddizioni. “Wharum, Perché?” il pezzo è una domanda: perché devo soffrire? Un accordo iniziale che è tutto incertezza. Implorazione, richiesta di aiuto e conforto. «Ma è lo stesso Schumann – e si risiede al piano – che suona anche questo». Forza, chiarezza, decisione. «Voi eravate puntuali» dice ai carcerati di fronte alle autorità ritardatarie.
Ancora su Schumann: «La domanda di disperazione diventa richiesta d’aiuto, nel primo brano c’era quasi un uomo crocefisso». Travagliato come Chopin, dice. E apre il libro dei Preludi. «Il cuore di Chopin in una Chiesa di Varsavia, ed è sinonimo di lirismo: ma è carico di dolore. Sentite questo preludio». Succede qualcosa in questo posto di lunghi corridoi, di orologi tutti con un tempo diverso, di sbarre e di divieti, di castighi. È come se nella musica, e nel silenzio con cui è accolta, splendesse qualcosa di misterioso e perfettamente in sintonia con questo luogo di dolore e di nostalgia.
Eppure Muti non si accontenta, spiega e smonta, ma invece di ricorrere a strutturalismi astrusi paragona il preludio a un piatto di spaghetti arricchiti dal sugo o dal ragù. E ci entra dentro, e ne spiega il grido, e siamo tutti qui dentro il cuore doloroso di Chopin. «Un brano pessimista, ma adesso vi suono una cosa tutta diversa in si minore». Muti introduce e poi fa parlare la musica come fosse una lettera o un verso, una riflessione, un discorso. Per lui è più della parola, va più dentro e più a fondo. Ma gli basta uno stesso si minore ed è di colpo a Rossini, per mostrare un altro mondo e un’altra storia. Poi torna a Chopin, al Preludio n.7, «una piccola mazurka, fra i pezzi più brevi della Storia della musica prima di Schonberg».
E di lì tonalità e dodecafonia sintetizzate in poche battute: microlezioni di storia della musica. Ma niente Schonberg. Suona e risuona la piccola mazurka, e arriva a "La goccia" e alla sua intensità potente e segreta. La voce di quella nota che batte alla porta del cuore, batte e insiste, batte e accompagna, incancellabile: «Nella sofferenza c’è sempre il gesto del porgere la mano».
Poi un altro infelice, Schubert: «Come tutti i grandi artisti (io mezzo infelice, forse perché artista a metà)». Altro capitolo della sua microstoria della musica: Vienna e le altre grandi capitali: anche Napoli naturalmente. Schubert amante di Beethoven, sepolto accanto a lui, Mozart il più grande di cui non esiste la tomba. Schubert misconosciuto nella sua grandezza, ed ecco il valzer di Schubert regalato a un amico per le sue nozze.
Meraviglioso biglietto d’auguri, intimo e rarefatto (chi scrisse Non ti scordar di me vi rubò certo qualcosa). Parla di tenerezza, di tenerezza perduta nell’amicizia e nella vita, fino a citare un film hollywoodiano su Schubert che serve a proporre un Improvviso (fantastica esecuzione). «Nel film si riferiva a una certa Carolina», qui evoca una dolcezza profonda, malinconica, un’assenza struggente. Arriva persino a raccontare il gran vecchio Verdi, uomo di terra, nessuna «malattia apparente dell’anima».
Ma poi arriva al colosso Beethoven. Altra infelicità, altri dolori: «Fino a non poter sentire le sue stesse note, uomo tagliato fuori del mondo, ma sempre grato al creato». Propone un movimento della Sonata op. 27 Al chiar di luna e si schernisce («Una volta ero un pianista decente…»). Ma dopo aver dato alcune preziose indicazioni sugli elementi da seguire durante l’esecuzione tiene soprattutto a difendere l’ascolto personale e libero a fronte delle mediazioni intellettuali. E succede in effetti qualcosa, perché l’applauso ha un tono diverso.
Muti raccomanda di tenersela cara la musica, fuori e dentro le sbarre, poi tutto si scioglie in un riconoscimento di comuni origini meridionali con questo e quel detenuto, fino all’esecuzione inedita de "La santa allegrezza", canto natalizio diffuso in tutto il meridione, qui nella versione "molfettese".
Ritornare in cella dopo quest’incontro così speciale cosa avrà voluto dire, per questi uomini e queste donne recluse a Bollate? L’eccellenza, la bellezza, invece del pubblico di Parigi, Chicago o New York, per una sera hanno parlato solo per loro, come un dono speciale. Ci piacerebbe (non è vero, lasciarsi alle spalle le porte del carcere è sempre un sollievo) restare lì a parlarne con loro, conoscere i loro sentimenti, le loro reazioni.
Muti finisce ringraziandoli: «Date un senso al mio lavoro». E loro gli si fanno tutti intorno. È nata un’amicizia.