Da alcuni decenni sono appassionato, collezionista e studioso di Jazz. Non sempre tale forma espressiva è stata ben vista da parte del pubblico e, con alti e bassi, spesso è stata vicino alla proscrizione.
Oggi, al contrario, sembra che ogni angolo della comunicazione sia infarcito di Jazz: cinema, Tv, letteratura, cronaca. In più c’è un fiorire di locali, festival, sagre, dove, sotto l’etichetta di Jazz, si somministra ogni tipo di sonorità con componenti musicali di mille provenienze.



È vero che il Jazz sia nero (New Orleans) che bianco (New York, Chicago) è nato tra la povera gente e ha subito contaminazioni, sia di musica afrocubana che europea, ma questo fatto per decenni ha lasciato la politica come fatto marginale e il Jazz è rimasto così musica di svago per sé e per gli altri. Si sono succeduti vari stili, alcuni sovrapponendosi tra di loro, e l’evoluzione ha portato dall’inizio del secolo agli anni Settanta, alla complessità delle varie forme usando ogni forma di linguaggio tentando esperimenti musicali, seguendo varie di pensiero.



Poi, da circa quaranta anni i fermenti, le nuove idee si sono rarefatte. Si comincia a ruminare il linguaggio che è stato dei grandi Padri e maestri: i giovani vanno in Conservatorio e diventano tecnicamente ineccepibili, ma comincia a farsi scarsa l’ispirazione, lo swing e le idee innovative.
Al posto dello spirito jazzistico si pone una colorazione politica, non si fa più Jazz per sé e per gli altri, nel senso di intrattenimento e sfogo dei personali stati d’animo, ma si usa questa espressione, che intanto ha perso le sue caratteristiche fondanti, come mezzo di rivalsa e di protesta delle categorie sociali meno fortunate.



Andrebbe tutto bene se fossero conservate le caratteristiche stilistiche del Jazz. Purtroppo, come ha acutamente rilevato un grande musicista e musicologo italiano, Enrico Intra, da decenni sulla scena con grosso peso artistico, il linguaggio jazzistico ha perso l’architettura di sé stesso; aggiungerei che si sono perse le lettere necessarie a formare un linguaggio nuovo. Siamo di fronte una forma di autismo musicale.

Cosa rimane oggi del vecchio Jazz? Per molti è un fatto di moda del momento, anche se non mi è chiaro perché un qualsiasi fenomeno sociale diventi improvvisamente di moda per poi magari rapidamente scomparire.
Personalità jazzistiche di rilievo oggi si contano sulle famose dita di una mano. Escludendo i mostri sacri ancora in attività, degni di rispetto per quello che hanno creato e per la loro veneranda età, e pochi altri che non rimasticano e ripropongono all’infinito ciò che è stato detto e fatto in pssato, la gran massa dei musicisti oggi in attività, pur essendo dotati di una grande esperienza tecnica, mancano di cultura e studio della storia del Jazz del periodo d’oro. Essi non trasmettono quei palpiti e quelle sensazioni che ci hanno fatto amare Louis, Bix, Prez, Bird, Miles. Ma di Jazz parleremo ancora…

(Adelchi Cremaschi)