Le tre date esplosive della storia finale dei Beatles sono il 6 marzo, il 10 aprile e l’8 maggio del 1970. La prima è il giorno dell’uscita del nuovo stupendo ’45 giri dei quattro di Liverpool, “Let it be”, una sorpresa dopo la recente uscita sul mercato di “Abbey Road”. La seconda data coincide con la dichiarazione di Paul McCartney «sono uscito dai Beatles», frase contenuta poi in un’intervista pubblicata all’interno del primo disco solista di Paul, McCartney. L’8 maggio, invece, è il giorno della pubblicazione di quello che diventerà l’ultimo ‘33 giri della band, Let it be. La corsa della band di Lennon, McCartney, Ringo e Harrison termina qui.
Tre date esplosive, si diceva. Anticipate però da una giornata fredda e luminosa di fine gennaio del ’69 vissuta sopra a un tetto.
La sede della Apple records si trovava al 3 di Savile Row, al centro di Londra, a due passi da Regent street e Piccadilly circus. Un palazzo di sei piani di scale, uffici, un solo ascensore, un tetto agibile, antenne, lucernai. Uffici e studi Apple erano qui. Nell’autunno del 1968 i Beatles e George Martin avevano dato il via al “progetto Get Back”, un’idea di rinascita che in buona sostanza prevedeva l’uscita di un disco dei baronetti e di un film sulla gestazione dello stesso. “Get Back” era un titolo programmatico: «È vero che litighiamo ogni giorni, che non ci sopportiamo più, che tutto sta per scoppiare, ma allora dimostriamo a noi stessi e al mondo che possiamo tornare indietro, tornare agli inizi, ai giorni del beat, della gioia, dei fiori e dei sorrisi».
Obiettivo condiviso, ma difficilissimo da realizzare. La band prova prima a dargli corpo trasferendosi in uno studio cinematografico di Twickenham, ma qui (nei primissimi giorni di gennaio) esplodono gli screzi: Lennon litiga con tutti e ci dà dentro con l’eroina, McCartney vuole imporre la propria leadership (celebre il siparietto in cui spiega a George come suonare una parte ritmica), Harrison si sente frustrato perché considerato musicista di seconda fila, Ringo trattato come sempre come un simpaticone di poche qualità e di molto alcool in corpo. Si cerca un’alternativa abbandonando Twickenham e rifugiandosi negli studi della Apple, ma è a McCartney che viene l’idea: video-registriamoci sul tetto.
La data del “ritorno agli inizi” coincide così con il 30 gennaio 1969. I Beatles – con l’aggiunta di Billy Preston alle tastiere – vanno sul tetto della sede Apple giusto all’ora di pranzo e «improvvisamente tutto tornò come prima», come disse George Martin. Rimasero là in cima finchè un gruppo di policemen fece sospendere l’esibizione, di fronte agli occhi sorpresi ed estasiati di una piccola folla lì radunata. In tutto interpretarono cinque canzoni: Get back, Don’t let me down, I’ve got a feeling, Dig a pony e One after 909, tra cui le prime tre vennero ripetute tre volte. Solo tre di queste canzoni (Dig a Pony, I’ve Got a Feeling e One After 909) appaiono sull’album nella versione registrata sul tetto (una trovata, quella di suonare tra antenne e camini, ripresa poi da molti, in primis gli U2).
Nei giorni successivi la maggior parte delle canzoni venne di nuovo registrata in studio, con l’aggiunta di alcuni pezzi subito considerati “vincenti”, ma proprio quando tutto sembra terminato gli scontri latenti tra i quattro esplodono. La situazione diventa insopportabile nel giro di una settimana, mentre c’è da decidere il nome del nuovo manager della band, con Paul che sostiene il fratello della futura moglie e gli altri – guidati da Lennon – che puntano su Allen Klein, già con i Rolling Stone.
Mentre Glyn Jones, produttore del disco lavora sulla versione definitiva, John si sposa con Yoko Ono e Paul con Linda Eastman e nel frattempo (segreto di pulcinella) ognuno dei quattro sta lavorando a un proprio progetto solista. All’arrivo della versione finale di "Get Back", nel maggio del ’69, nessuno è soddisfatto, con massima delusione di Jones. Visto che anche il nuovo arrivato Klein non crede nel progetto film-album Get Back, che nel frattempo esce anche dagli interessi di Lennon (che comunque accetta la pubblicazione del ’45 giri "Get Back" l’11 aprile del ’69), il tutto esce dagli obiettivi prioritari del gruppo e nel giro di poche settimane le altre registrazioni vanno in soffitta e parte un nuovo progetto, quell’"Abbey Road" destinato ad arrivare nei negozi il 26 settembre.
A dicembre il progetto faticosamente risorge, mentre Lennon e McCartney non si vedono più per mesi e George Harrison fa coppia fissa con il più grande chitarrista rock-blues britannico, Eric Clapton: a Glyn è chiesto di riprendere in mano i master e di aggiungere alcune canzoni, cosa che viene fatta tra il 15 dicembre e l’8 gennaio.
L’ultima registrazione, I Me Mine, è del 3 gennaio: è una canzone di Harrison alle cui sessions non partecipa Lennon, che è in vacanza in Danimarca.
A marzo Klein e Martin, con l’accordo dei quattro beatle, inviano le registrazioni a Phil Spector, uno dei più famosi produttori americani, per un restyling finale. Il risultato sono montagne di violini e sovraincisioni esagerate (come in The long and winding road). In ogni caso, per i misteri della storia, finalmente il disco è pronto, con dodici canzoni e cinque evergreen: Let it be (dedicata da McCartney alla madre scomparsa), Across the universe, Get back, I’ve got a feeling e The long and winding road. Nelle settimane successive accade di tutto, fino a giungere alle tre fatidiche giornate: l’uscita del ’45 giri, la dichiarazione di McCartney, l’uscita del ’33 giri.
"Let it be", il disco dell’amicizia che si sgretola, ultimo tentativo di tenere insieme i cocci, rimane uno dei momenti più belli, drammatici e finanche patetici della produzione beatlesiana. Un testamento artistico senza precedenti.
La corsa degli “scarafaggi” termina qui. Una corsa iniziata dal Cavern club di Liverpool, proseguita ad Amburgo e poi in tutto il mondo. Una corsa che ha travolto Stu Sutcliffe (primo bassista del gruppo, morto nel 1962) e Brian Epstein (l’amico e manager, deceduto nell’agosto del ’67). Una corsa che più tardi, quel tragico 8 dicembre 1980, ha bruciato anche John Lennon, ucciso con i colpi di pistola di Mark Chapman, un fan troppo fan, di fronte al Dakota building di New York.
Son passati quattro decenni e i Beatles hanno segnato la strada di tutto il cammino della pop music, hanno venduto centinaia di milioni di dischi, sono tra le poche cose autenticamente seminali e indelebili della musica leggera e non a caso la pubblicazione in cd di tutta la loro discografia è stato recentemente un evento culturale prima ancora che strettamente discografico.
Li ascoltiamo e continueremo ad ascoltarli. E anche quando un giorno la musica non si comprerà più e forse si ascolterà solo per trasmissione di onde radio da un cervello all’altro, da un device elettronico direttamente connesso ai nostri neuroni, ci sarà comunque qualcuno (in una sorta di riedizione di Fahreneit 451) che conserverà la voglia di ascoltare The long and winding road, non importa se su cd oppure (come faccio ancora io) su un vecchio vinile che striscia, frigge e salta. Qualcuno che quando la voce di Paul intona “don’t leave me standing here, here all alone”, sarà ancora in grado di pensare che ogni tanto, anche grazie ai Beatles, la musica pop ha saputo raccontare la vita di tutti i giorni, narrandone delusioni e speranze, tra strofe e ritornelli.