Nella sala Petrassi del Parco della Musica a Roma dominava il chiacchiericcio fino all’inizio del primo brano del concerto che concludeva la serie “Diario dell’anima” dedicata alla musica di Arvo Part.
Intona il tenore “Kyrie, eleison” e inizia la Missa syllabica, prima esecuzione di una nuova versione. Ma le note, sgorgate dal silenzio in cui vogliono tornare, trovano ancora i rimasugli delle parole non proprio sussurrate. Si sa, a Roma si parla anche ai concerti di musica contemporanea.
Una seconda volta: “Kyrie, eleison” e il rumore si è placato molto di più. La terza invocazione, e la musica ha aperto un varco nella distrazione.
È impressionante: questa è musica che insegna il silenzio. Non solo lo esige, lo crea. Alla fine di ogni brano uno si sente normalmente obbligato ad applaudire, ma questa sera viene voglia di restare nel mondo calmo e ricco della trama dei suoni. È musica che invita a riflettere e a pregare. L’applauso interrompe, livella, banalizza.
La soprano del Theatre of Voices, Else Torp, mi ha detto dopo il concerto: “Preferisco quando cantiamo nelle chiese. L’altro giorno a Bologna, cantavamo a San Petronio. Era grande, forse troppo grande, ma c’era quella qualità del suono…”. Scherzava il tenore, Chris Watson: “Purtroppo qui a Roma non ci sono tante chiese…!”. Effettivamente veniva voglia di stare in chiesa.
Certamente si può apprezzare questa musica anche in una sala di concerti – e senza la Santa Cecilia, non l’avremo sentita. Ma è musica che chiede ampi spazi e silenzi profondi. Non vuole essere interrotta dopo ogni brano.
La prima parte del concerto alternava brani della prima generazione dei compositori fiamminghi con le parti della Missa. L’alternanza funzionava fino a un certo punto; mostrava la vicinanza stilistica tra Part e i suoi antenati, anche se non sempre c’era una progressione evidente fra i brani. Certe volte sembravano frammentati, senza una connessione interiore.
Quando ci siamo trovati dinnanzi al gregoriano Alma redemptoris mater, il tenore ha fatto una esecuzione pulita ma distaccata. Non sembravano melodie che canterebbe a sua mamma… Ben diversa la sensazione durante lo Stabat mater, quando la Else Torp ha lasciato che la sua voce limpidissima prendesse un leggerissimo vibrato. "Non dirlo al direttore!" mi supplica dopo. Paul Hillier, direttore e basso del Theatre of Voices, fa bene a insistere sulla purità del suono. Ma quel vibrato era perfetto: proprio sulle parole "Fac ut ardeat cor meum in amando Christum deum, ut sibi complaceam" (Concedi che il mio cuore arda per amore di Cristo Dio, così che io gli piaccia) di colpo la purezza angelica del suono si è incarnata, diventando Maria, diventando donna. Diventa una di noi.
Colpiva anche l’energia arguta del Credo, che poi si è rispecchiata con ritmi e armonie simili nel Sanctus – ma dove il Credo era fermamente poggiato sulla terra, l’elenco di verità accessibili all’uomo, il Sanctus volava nelle altezze cristalline del cielo. Eppure le due sfere dell’essere sono legate. Il Sanctus è il Credo trasfigurato, realizzato.
Ieri ho promesso una sintesi. Ora approfitto di quella parola per dire ciò che la musica di Arvo Part non è ancora, ma che può contribuire a realizzare: una sintesi.
Ci sono delle vette, e degli attimi di vetta (come la conclusione del meraviglioso Wallfahrtslied). Speriamo che negli anni a venire Part riuscirà a costruire cattedrali di suono sempre più perfette, sempre più vere. Ciò che verrà, come ciò che sopravvivrà al tempo che logora, non si può ancora dire.
Per ora, si può essere grati a Part e ai suoi interpreti per averci insegnato il silenzio, terreno fertile in cui ogni musica può fiorire. Dopo il concerto, i musicisti dicevano che dovrebbero tornare a Roma verso ottobre – in una chiesa.