È una di quelle notizie che non si vorrebbero mai sentire. Perché è sempre una grande tristezza quando se ne va un pezzo di storia, un simbolo, e anche un uomo straordinario.
Solomon Burke ci lascia nel mezzo di una tournée, ad Amsterdam, dove avrebbe dovuto suonare. Aveva 70 anni e vari malanni, ma non li dimostrava affatto, vista l’intensa attività live. Un lavoro, certamente, che è stato anche la sua missione per tutta la vita.
Con Solomon Burke, “The King Of Rock’n’Soul”, se ne va un pezzo di storia, quella della grande avventura umana e discografica dell’etichetta Stax, una compagine di musicisti eccezionali che nei primi anni 60, in un’America ancora profondamente ferita dalle tensioni razziali, sfidò il sistema discografico e le convenzioni del tempo proponendo musica Soul in grande stile e con musicisti, bianchi e neri insieme di incredibile talento: Steve Cropper e Donald Dunn (chitarra e basso della Blues Brothers Band, n.d.r.), Wilson Pickett, Otis Redding, Sam & Dave, Isaac Hayes, Aretha Franklin e molti altri. E poi lui, il giovanissimo del gruppo, Solomon Burke.
È una generazione di artisti che si è confrontata con i problemi gravissimi della società americana, gente che ha conosciuto Martin Luther King e partecipato al movimento per i diritti civili.
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Solomon si è sempre distinto per la grande religiosità e il forte legame con la musica Gospel con cui è cresciuto, tanto da fondare una propria chiesa protestante e vivere di fatto come un patriarca. Ha mandato alle stampe oltre 30 dischi ed è stato estremamente prolifico nello scrivere canzoni per sé e per altri musicisti.
E’ stato anche un grande interprete: sapeva sussurrare ma anche ruggire con quella sua voce di velluto. È stato certamente il più attivo e carismatico tra i cantanti Soul in questo inizio millennio: se alcuni compagni di viaggio sono scomparsi prematuramente, altri negli ultimi anni si sono concessi sempre meno alle folle. Ma per lui, evidentemente, la musica e il messaggio di speranza che portava, erano la vita stessa.
Abbiamo avuto la grande fortuna di salutarlo proprio qui in Italia lo scorso 17 luglio, al Brianza Blues Festival. Sembrava inossidabile, invincibile, anche da seduto, su quella poltrona che non lo abbandonava mai: sul palco quella sedia diventava un trono, e la sua malattia diventava energia carismatica di chi canta e prega allo stesso tempo. Soul music, musica dell’anima, appunto.
Fece uno show indimenticabile, che seppe coinvolgere con elegante energia tutto il pubblico. Si divertì a mettere in difficoltà il servizio d’ordine per quel suo bisogno di contatto, di vicinanza con il pubblico, per cui praticamente ci trovammo tutti sul palco intorno a lui.
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Un’umanità di grande calore e simpatia la sua, che emerge anche dal ricordo di Carlo Fumagalli, organizzatore del Brianza Blues Festival, che lo ha fortemente voluto per il primo anno della manifestazione:« Dietro le quinte gli diedi una vecchia foto che feci con lui sul palco dell’Orfeo molti anni fa. Mi ha sorriso e mi ha abbracciato, ricordando quel viaggio in Italia e dicendo che mi avrebbe dedicato una canzone quella stessa sera a Monza. Firmò la foto e scrisse ‘God bless you!’. Fu commovente».
E quella sera “The Bishop of Soul” fece tutto il suo incredibile repertorio costellato di hit, spesso rese famose da altri artisti: sua ad esempio la celeberrima Everybody Needs Somebody To Love, oltre ovviamente a Cry To Me, il suo maggiore successo discografico. In chiusura di spettacolo, come sempre amava fare, propose il Soul Medley, una lunga carrellata di cover che cambiava e aggiornava ad ogni concerto, l’omaggio a tutto un mondo di cui sentiva di essere forse l’ultimo portavoce.
Con il suo stuolo di coriste, i suoi messaggi di pace e fratellanza e l’abbondanza di rose rosse sul palco, Solomon Burke ci regalò davvero un anticipo di paradiso.
(Stefano Rizza)