Quarantotto anni fa Quincy Jones aveva poco meno di trent’anni ed era già considerato uno dei produttori più in vista nella black music americana. Nel ’62 Quincy mise a segno uno dei suoi più limpidi successi, frutto di qualità artistica e fiuto impagabile: stiamo parlando di “Big band bossa nova”, uno dei primi dischi di autentica contaminazione tra rhyhtm’n’blues, funky e canzone sudamericana, un disco che tra Mingus e Jobim – nell’interpretazione di musicisti stellari come Roland Kirk, Jim Hall e Lalo Schifrin – presentava interpretazioni tutte black di Desafinado, No more blues, senza dimenticare quello strumentale destinato a passare alla storia che è – appunto – Soul Bossa nova.



Da quel disco passano i decenni e Quincy diventa il George Martin della musica nera. Quel che ha fatto sir George con i Beatles, il signor Jones l’ha fatto con Michael Jackson (è sua la produzione di “Thriller”), con la differenza che Quincy ha trovato il tempo per lavorare con Miles Davis e Dizzy Gillespie, Frank Sinatra (è sua Fly me to the moon) e Count Basie e – nel tempo libero – ha pure assemblato e prodotto nel 1984 il progetto “We Are the World”.



A settantasette anni suonati Quincy il monumento ha trovato voglia di incidere un nuovo disco, “Q Soul Bossa Nostra”, a quindici  anni dal precedente “Q Juke Joint”, un lavoro che parte da un autoreferenziale riferimento proprio a quello straordinario disco del ’62 di cui si diceva iniziando.

Il disco, appena uscito e atteso negli States come manna dal cielo delle superstar, è stato accolto un po’ freddamente perché non contiene nuove canzoni, ma solo un bell’elenco di classici firmati negli scorsi decenni da Quincy ed interpretati da piccole o grandi stelle dell’hip hop contemporaneo (genere che per altro negli Usa è considerato l’attuale rhythm’n’blues).



Il progetto artistico è chiaro: un disco che propone un confronto tra epoche, come terreno di dimostrazione della genialità di Quincy Jones nella manipolazione saggia degli ingredienti dell’attuale black music (suono campionato, dub, sovrapposizione di ritmi, uso del drum’n’bass a fini melodici, acrobazie metrico-vocali…).

Il progetto è lampante e il pubblico a cui si rivolge, anche (negli Usa il nuovo rhythm’n’blues gareggia con l’hard & heavy in quantità di cd venduti), ma forse, alla fine, nella qualità sopraffina del prodotto si perde la possibilità di proporre qualcosa di nuovo.

Così, all’ascolto, il disco pur piacevole, non entusiasma. Certo Soul bossa nova nelle voci di Ludacris e Naturally 7 è parente fresca e giovanile del pezzo che conosce tutto il mondo (anche perché era colonna sonora di decine di film, a partire da "Austin powers"), mentre It’s my party vede una Amy Winehouse abbastanza in forma e pure Snopp Dogg (che però è sempre più confondibile con Eminem) se la cava con un altro classico come Get the funk out of my face, ma nell’insieme non c’è nulla in grado di dare autentici brividi o lasciare a bocca aperta (caotiche e deludenti le notissime Ironside e Sanford and son).

Le migliori del cd sono Everything must change, con la vocalità potente di BeBeWinans che cerca di non sfigurare con Nina Simone (che aveva portato al successo questo brano soul), e Betcha wouldn’t hurt me, con una Mary Blidge perfettamente a suo agio in una confezione di musica vera e non campionata, ricordando la versione originale di Patty Austin.

Negli Usa si attendevano il capolavoro e non hanno gioito (e sfido: dopo quindici anni si attendevano qualcosa di più…). In effetti Quincy non ha fatto un capolavoro, ma non si può nemmeno liquidare "Q Soul Bossa Nostra" come un’immane fregatura, bensì come un’autocelebrazione. Consideriamolo un tentativo del patriarca di riunire tutti i nipotini per dire: “Ragazzini, ho iniziato tutto io”. E chi potrebbe dargli torto?