Uno di quei Re che stanno nella penombra. La fama del direttore d’orchestra Alceo Galliera non è pari alla sua grandezza. Meriterebbe un posto nell’Olimpo dei grandi del podio, deve accontentarsi d’un attico. Milanese di nascita (giusto un secolo fa), bresciano d’adozione. Radicalmente estraneo ai meccanismi dello star system, ai suoi vacui riti, alle inevitabili leggi della mondanità.



Allergico a riflettori e feste di gala. Nemico della retorica e del clamore. Il collega Herbert von Karajan rispondeva alle domande dei giornalisti americani, recitava la parte, si sistemava il ciuffo prima dei flash. Il taciturno Alceo scompariva per l’intera giornata, lasciando nello sconcerto i dirigenti della Columbia Records che non sapevano dove cercarlo. Carattere schivo, semplicità di cuore, certo. Anche ansia di Assoluto. Personalità ellittica, che non si rivela, come una scaglia di sconosciuta sostanza minerale, imperscrutabile nella sua interezza. Eppure gioviale e tenero, con chi fa sul serio.



«Era un generoso, non si risparmiava – spiega la moglie Eva Frick, famosa organista – donava sé totalmente». Poche salde e consolidate amicizie, al di fuori del consueto entourage. Umile con gli uomini semplici, profondo con le persone vere. Attira su di sé critiche e ironie di colleghi gelosi perché svela i segreti del mestiere ai suoi giovani allievi. Rimproveri che non lo toccano. Galliera sa che solo la musica donata con passione può tornarti indietro ricolma d’affetto, più bella che mai.

Proverbiali le sue sfuriate contro errori e negligenze degli orchestrali: non melodrammatici scoppi d’ira alla Toscanini, ma interiore insofferenza nei confronti di ogni pressapochismo. Racconta la Frick: «Studiava la Messa da Requiem di Verdi. Dovetti cantargli tutte le parti. Lui mi dirigeva, con dolcezza e rigore». Divorato da un intransigente amore per la bellezza, ottenuta con infaticabile e meticoloso lavoro. «Scelse la via più difficile: la ricerca della perfezione», riassume Luca Benatti, lo studioso che più di tutti lo conosce.



A ventidue anni è insegnante d’organo a Milano (subentra al padre), passata la trentina è già un nome. Ricopre incarichi stabili a Genova, Melbourne, Strasburgo, incide regolarmente con la Philarmonia Orchestra di Londra. Innumerevoli concerti dal vivo, un centinaio di registrazioni, tra le quali un leggendario “Barbiere” con Maria Callas. Dirige decine di solisti d’eccezione, da Fournier a Oistrakh, Gieseking, Arrau, Michelangeli. Insegna direzione d’orchestra a Siena; tra i suoi allievi Abbado, Dutoit, Zubin Metha. Una foto lo ritrae insieme al collega Franco Ferrara, un’altra bacchetta fenomenale: i maestri dei maestri.

Sotto le sue cure le partiture subiscono una chiamata alla luce, scoppiano di vita. Scorci visionari. Tutto il gusto di un’epoca, esemplarmente condensato. Energia espressiva, improvvise combustioni, dentro ad agili articolazioni, trasparenza somma, naturalezza da organismo vegetale, ordine e geometria.

Una lenticolare attenzione al dettaglio, accostabile alle monacali ricerche sonore dal divino baffuto pianista Arturo. Oppure a Carlos Kleiber, per altri versi a lui simile. Una memoria prodigiosa, centinaia di partiture accumulate nella mente, nettezza del gesto, sguardo magnetico. Ciascun singolo colpo d’arco annotato con scrupolo, conoscenza delle varie modalità d’emissione, le posizioni più comode, mille trucchi. Un lavoro sui testi certosino, tentacolare, mai definitivo, mosso da una fame di compimento enorme. La paura di non possedere mai abbastanza? La consapevolezza di poter sfiorare solo “una” verità?