Tra i tanti tipi di musicisti e autori che frequentano la vita e la musica (sia la mia che quella di tanti appassionati), Marco Poeta è tra quelli che posseggono il pregio della semplicità e della simpatia, caratteristiche che fanno a gara con la sua ampia qualità musicale. Potrei dire che da quando lo conosco mi piace tutto quello che fa.



Alcuni se lo ricorderanno autore delle orchestrazioni de “La straniera” al Meeting di Rimini, molti altri lo conoscono per l’enorme lavoro di divulgazione del fado (con Francesco Di Giacomo, Silvia Mezzanotte ed Eugenio FInardi), ma è sempre troppo poco, vista la mole di musica che è passata dal suo cuore.



Marco ha la sensibilità nelle dita, la sincerità nelle melodie. Nella sua storia umana e musicale ci sono grandi collaborazioni, conversioni musicali (…quella che l’ha portato al fado portoghese) e conversioni personali.

Quel cammino che ha portato Marco a un faccia a faccia con l’ultimo mistero della vita è raccontato nel suo nuovo e intensissimo disco “Nel fragoroso silenzio di Dio” (Itaca), un lungometraggio di introspezione e suoni in cui i suggeritori e le influenze sono nomi e generi ricchi di autentica passione umana e religiosa, da Thomas Merton ai caraibi, da Ry Cooder agli chanssonnier, dal blues a Fabrizio de André. 



Esplicito e diretto nella sua necessità di cristianesimo, "Nel fragoroso silenzio di Dio" è un lavoro che trasuda calore e personalità, pieno di sorprese poetiche e musicali già a partire dall’apertura, la sorprendente titletrack che s’avvia come una ballata semplice, un salmodiare da cantautore prima di aprirsi travolgente in una melodia dal respiro mediterraneo.

Undici canzoni, tanti suoni e orizzonti: è il tex-mex che spinge il sound di Rinuncia ad ogni cosa; il fado fa invece capolino in Lascia tutto e seguimi, mentre Quando Dio tace è attraversata sia nei testi che nelle musiche da quella sottile e sbrigativa nostalgia degli autori francesi, come in un Brassens dei giorni nostri (“Perché tace così a lungo/ Perché la fede è così amara/ Se Dio esiste perché c’è il male”).

Un disco da sentire con umiltà e fame, che raggiunge (almeno secondo me: non so se Marco la pensa così…) le sue vette in Ghiaccio e spine, commovente confessione del ladrone non-pentito, in Il mio Getsemani, che canta "Non voglio più vedere nulla che implichi una distanza tra me e te" in una confezione elegante di alternative-country, e negli echi di vita ed eremitaggio di Thomas Merton in un pezzo perfetto come Nevica in Kentucky, dove il blues insegue la canzone d’autore in un gioco di chiaroscuri che piacerebbe a Tom Waits.

Perché Marco Poeta ha inciso un disco così? Non c’è da interrogarsi troppo, perché è già tutto esplicito: è un lavoro di avvicinamento al Vero iniziato anni fa, che ora segna questa tappa e l’affida a noi ascoltatori, cercando probabilmente di averci come suoi complici.

Come si entra in sintonia con queste canzoni? Lasciandosi invadere e travolgere dalle parole e dalle melodie equilibrate e coinvolgenti, dalle chitarre ampie e in primissimo piano, limpidi suoni dell’anima che fascinosamente conducono dentro i testi, dentro le fatiche della vita. Dentro la preghiera. Perché questo è essenzialmente un disco di preghiere. Anzi: un disco di salmi.